di Davide Silvioli Avvalorando la tesi secondo cui «la pratica curatoriale contemporanea, soprattutto quando opere provviste di una radice tecnologica significativa sono il suo epicentro, sembra essere in bilico fra il tentativo di inserire tali lavori nella fenomenologia della storia dell’arte e quello di trovare per gli stessi, vie d’espressione efficaci che possono però finire per escluderli ancora di più dalle modalità canoniche di esposizione e di documentazione»[1], questo studio mira a registrare le ragioni a fondamento del verificarsi crescente di un’attitudine distintiva dell’attualità, nel merito del campo disciplinare della curatela d’arte contemporanea. Si fa riferimento al dato che vede la pratica curatoriale odierna chiamata a interfacciarsi, con una ricorrenza sempre maggiore, con ricerche artistiche che qualificano la rete internet quale elemento costitutivo; sia che si tratti di opere totalmente informatizzate, dunque concepite e realizzate per essere fruite – a prescindere dagli strumenti utilizzati per farlo – esclusivamente nel web, che di lavori dalla formazione ibrida, perciò in grado di riunire nella propria articolazione tanto la dimensione fisica quanto quella online. In questo confronto, si assiste, non affatto di rado, all’avvalersi da parte dell’attività curatoriale di espedienti tecnologici, impugnati poiché ritenuti indispensabili per restituire nel modo più attinente possibile la natura estetica delle opere incluse in un progetto espositivo della fattispecie. A partire da tale constatazione, suffragando la convinzione secondo cui «la curatela non può essere dissociata dai cambiamenti sociali e tecnologici della civiltà del network»[2] e del proprio presente storico, la prosa ragiona su questa specifica flessione dell’andamento coevo della curatela d’arte contemporanea, al fine di rilevare l’entità della sua relazione con la categoria artistica identificata dalla nozione di “Internet-based”, dalla prospettiva dell’uso della tecnologia. Così strutturata nell’impianto concettuale, la trattazione si sofferma sull’osservazione delle motivazioni e delle modalità tramite cui la curatela d’arte contemporanea stia ricorrendo alla tecnologia, nella configurazione di progetti di mostre fisiche con opere internet-based. A tale proposito, poggiando sulla convinzione che «non intercorra incompatibilità fra la curatela e le tecnologie informatiche»(3), si argomenta che l’intenzione di impostare il focus dello scritto su una fra le nuove frontiere della curatela, la problematica “Internet-based”, è protesa a scrutare alcune soluzioni che l’esercizio curatoriale ha elaborato rispetto a come trattare realizzazioni di tale tipologia, fra le più avanguardistiche della contemporaneità, nonché già peculiare del presente storico-artistico. Un’accentuazione speculativa del genere, secondo un modello solitamente molto meno percorso, trasferisce il punto di vista dell’analisi dell’uso della tecnologia dalla sfera della ricerca artistica a quella della curatela, sulla base di come la stessa stia attraversando e risolvendo la questione “Internet-based”. Questo schema coincide, collateralmente, pure con il proponimento di monitorare l’aumento delle soluzioni che la professione del curatore, in sincronia con l’evoluzione di altri settori scientifici, è in potere di conseguire. Ciò termina nell’attribuire al testo un margine di novità, quindi anche d’incertezza o d’incompletezza, da dover soppesare. Quest’ultimo aspetto, sebbene possa sembrare conflittuale, rispecchia la difficoltà, endemica della critica d’arte contemporanea, implicita nel tentativo di mettere a fuoco i fenomeni culturali in assenza della dovuta distanza cronologica per farlo in maniera completamente nitida. Sul significato di Internet-based Difatti, l’espressione “Internet-based” si ritrova spesso associata indiscriminatamente e in modo indebito alle definizioni di “Net Art”, “Digital Art”, “Browser-based Art”, “Software Art”, “Internet Art”. Nei casi più generici, essa è utilizzata in sostituzione di queste denominazioni, come se fra tali accezioni non sussistessero livelli di differenza decisivi oppure come se le stesse fossero deliberatamente intercambiabili. Se, da un lato, il riscontro della vaghezza di tale condizione critica decreta la disomogeneità con cui la teoria dell’arte si è occupata del termine in esame, ciò, dall’altro, è dimostrazione della proprietà più evidente di questa nozione; ovvero la trasversalità. Nondimeno, persiste il problema che l’appellativo “internet-based” viene simultaneamente adoperato per una pluralità di ambiti e di esiti rispettivi della ricerca artistica, talvolta anche molto eterogenei, al punto di causare un disorientamento interno alla disciplina stessa. Allora, per circoscrivere il raggio di pertinenza del suo significato, risulta proficuo far appello alla natura del suo etimo, che va a indicare solamente la qualità costitutiva rivestita dalla rete internet nella fisica, quindi nell’estetica, di un’opera d’arte. Quanto ora desunto descrive null’altro che il vincolo di necessità, racchiuso nell’aggettivo “based” (da interpretarsi come “fondato”), che prevede il collegamento alla rete internet tra le componenti essenziali di un dato lavoro. Pertanto, dal momento che, oltre al ruolo irrinunciabile ricoperto dalla connessione web, nel termine non vi è alcun tipo di allusione riconducibile a medium, a tecniche, a procedimenti o a finalità, ogni qualvolta esso viene assimilato a discendenze di categorie che, invece, comportano prescrizioni di tal sorta, lo stesso diviene materia di un accostamento improprio. Al fine di marcarne il margine d’autonomia da altre nomenclature, si veda come un lavoro internet-based può non coincidere necessariamente con un’opera d’arte digitale, non corrispondere sempre a un’operazione artistica svolta internamente alle funzioni di un computer o a quelle della stessa rete internet, non deve per forza essere vincolato alle prestazioni di un software, di un browser o neppure di un algoritmo. A ogni modo, si sottolinea che questa autosufficienza non ne rinnega a priori una possibile appartenenza, a ragione, alle terminologie già citate, anche a più di esse al contempo. Tale statuto polimorfo è un derivato della mutualità che contrassegna queste convenzioni critiche, che, a loro volta, riflettono la poliedricità della tecnologia che le determina. Un ordine di contenuti così prospettato, per non risultare irrelato a quanto la curatela stia effettivamente conseguendo in termini di proposte espositive, induce a conferire non meno rilievo ai precedenti offerti dalla praxis, intesa come pensiero critico tradotto in azione, registrando l’assunzione di mezzi innovativi e la messa a punto di soluzioni inedite. Con la consapevolezza che «qualsiasi spazio entro cui si compie un’operazione curatoriale diviene essenzialmente uno spazio virtuale, perché la ridefinizione di significato di un ambiente che l’attività curatoriale termina nel restituire non è già incorporata nella realtà materiale del luogo»[4], l’investigazione è andata a supporre, cercando di renderne visibili le ragioni fondanti, un insieme sintetico e volutamente eterogeneo di trascorsi recenti, costituito da operazioni curatoriali che hanno trattato interventi dal carattere ibrido, dove connessione alla rete internet e parzialità fisiche si integrano reciprocamente, tanto nell’opera d’arte quanto nell’organicità del progetto. Su questa linea, si evince che l'impiego della tecnologia, relativamente alla curatela, risulta idoneo solo se è in potere di coniugarsi, con coerenza, al pensiero critico, all’allestimento nello spazio, ai modi di fruizione delle opere, fino a suggerire una «corrispondenza fra il rapporto dell’osservatore con le interfacce web e lo spazio fisico, cercando di stabilire coesione fra modi diversi di espressione, di fruizione e di esposizione»[5]. Pertanto, è costruttivo che pratica curatoriale e tecnologia siano correlate da un principio di complementarità, di interoperabilità, tale da consentire sia di esprimere che di esperire una condizione estetica che i soli apparecchi tecnologici o la curatela più ordinaria, singolarmente, non riuscirebbero a restituire. Laddove, per converso, la tecnologia non viene risolta in tal senso appare aliena al contesto a cui essa, al contrario, dovrebbe dare voce, finendo nell’avvertirsi come sterile, superflua, fuorviante. Allo stato dei fatti, si può dare per assodato che «le tecnologie digitali e i nuovi media influenzano e continueranno a modificare radicalmente lo scenario espositivo. Questa tendenza induce la curatela a problematizzare e a sfidare tanto i concetti quanto le metodologie curatoriali convenzionali»[6]. È anche da considerare che il cambiamento ora indicato si verifica sempre in risposta al mutare degli esiti offerti dalla ricerca artistica, che solo in tempi relativamente recenti ha iniziato a metabolizzare questa inclinazione operativa. È per questa motivazione che la classe rappresentata dall’arte internet-based costituisce un contesto speculativo, nonché un territorio di confronto fra visioni differenti, dotato di indubbia profondità d’indagine e di evidente attualità. Note [1] Papadaki 2019, p. 1 [2] Kraysa 2006, p. 10 [3] Weinberg 2014, p. 230 [4] Ivi, p. 231 [5] Ghidini 2015, p. 137 [6] Pan 2021, p. 48 Bibliografia Kraysa 2006 = J. Kraysa (a cura di), Curating Immateriality: The Work of the Curator in the Age of Network Systems, Autonomedia, Brooklyn 2006. Weinberg 2014 = L. Weinberg, Curating Immateriality: in serch for spaces of the curatorial, Goldsmith University press, Londra 2014. Ghidini 2015 = M. Ghidini, Curating web-based art exhibitions: mapping their migration and integration with offline formats of production, Sunderland University press, Sunderland 2015. Papadaki 2019 = E. Papadaki, Between the Art Canon and the Margins: Historicizing Technology-Reliant Art via Curatorial Practice, Indiana University press, Bloomington 2019 Pan 2021 = P. Pan, Curating multisensory experiences: the possibilities of the immersive exhibitions, OCAD University press, Toronto 2021.
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Marzo 2024
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