di Michela Cipriani La Cappella Carafa, collocata nel lato destro della basilica di Santa Maria sopra Minerva, fu affrescata alla fine del 1400, sotto commissione del cardinale Oliviero Carafa e su consiglio di Lorenzo il Magnifico, da Filippino Lippi, un pittore italiano, figlio d’arte e allievo di Botticelli che nonostante la giovane età aveva già avuto modo di mettere in luce le sue grandi capacità. Questa cappella risulterà essere una delle più alte testimonianze dell'arte tardo-quattrocentesca a Roma tanto da non perdere di importanza nel corso dei secoli. La volta della cappella fu la prima ad essere affrescata. Fu divisa in quattro vele, raffiguranti altrettante Sibille e al centro di questa si trova lo stemma della famiglia Carafa, posto all’interno di un medaglione la cui decorazione si espande lungo i costoloni. La parete di fondo è decorata al centro con una finta pala d’altare rappresentante l’Annunciazione e tutt’intorno invece predomina l’affresco dell’Assunzione. Importante da sottolineare è la storia dietro la decorazione della parete sinistra della cappella Carafa poiché in principio ospitava gli affreschi di Vizi e Virtù mentre oggi vi si trova il monumento a Papa Paolo IV Carafa. Gli affreschi precedenti furono completamente distrutti e sono noti solo oggi grazie a una descrizione del Vasari. Per quanto riguarda la parete destra essa presenta una decorazione architettonica simile a quella della parete centrale, ma è divisa da un fregio in un riquadro principale e in una lunetta. Essi rappresentano rispettivamente il San Tommaso in cattedra (o Disputa di san Tommaso) e il Miracolo del libro. Per via di una scarsa illuminazione e un cancelletto di protezione posto all'entrata della cappella è stato quasi sempre impossibile apprezzare da vicino i dettagli di questi affreschi. Le sorti dell'opera cambiano però a partire dal mese di marzo dell’anno 2008 quando il fisico e ricercatore presso l'ENEA di Frascati (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo sostenibile) Giorgio Fornetti e il suo staff, con l'utilizzo di un laser scanner 3D, l'RGB-ITR (Red Green Blue – Imaging Topological Radar) sono stati in grado di acquisire le immagini a colori relative alla cappella per poi riprodurne una fedelissima rappresentazione tridimensionale. Il sistema in questione utilizza tre sorgenti laser di lunghezza d'onda differenti e corrispondenti ai tre colori primari, rosso blu e verde, combinate a formare un singolo fascio che verrà mosso sulla superficie da analizzare, modulato ad altissima frequenza. I dati raccolti saranno poi trasferiti ad un computer per l'elaborazione virtuale. (1) Precedentemente questa tecnologia era usata per controllare lo stato delle strutture all’interno dei reattori nucleari a fusione e solo oggi trova applicazione nelle procedure diagnostiche volte al restauro nel campo della conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali. Attraverso quest’ultimo utilizzo infatti è possibile monitorare le opere d’arte ed intervenire con tempestività sui danni del tempo e dell’inquinamento come, ad esempio, i rigonfiamenti sub-millimetrici. (2) (3) L'utilizzo di queste apparecchiature non è affatto invasivo come si potrebbe pensare. Lo stesso Fornetti, durante un'intervista, ha affermato che i visitatori hanno avuto la possibilità di accedere normalmente per tutta la durata dell'intervento, dal momento che l'applicazione della tecnologia non richiede, come gli interventi convenzionali, il ricorso a ingombrati impalcature e numerosi operatori. (4) Per la riproduzione tridimensionale della Cappella Carafa sono state eseguite sei scansioni per un totale di 120 ore di acquisizione e il meraviglioso e dettagliato risultato è rimasto esposto per circa quattro mesi, insieme ad altre 170 opere, nella mostra dedicata al Quattrocento romano prodotta e organizzata dalla Fondazione Roma in collaborazione con Arthemisia: “Il Quattrocento a Roma. La Rinascita delle Arti da Donatello a Perugino”. La mostra è stata ospitata dal Museo del Corso a Roma che ha messo a disposizione una postazione dotata di computer e di uno schermo per la visione 3D mediante appositi occhiali. In questo modo i visitatori hanno avuto l’opportunità di fruire interattivamente di una visione tridimensionale nitida e ravvicinata degli affreschi del Filippino Lippi. Nella sua totalità la mostra prodotto razioni di notevole interesse sui media nazionali e negli spettatori. A tal proposito è possibile evidenziare l’opinione del professore Marco Bussagli dell'accademia delle Belle Arti di Roma, suggeritore dell'iniziativa della scansione e curatore della mostra, riguardo la tecnologia applicata all’arte. Egli in una intervista doppia svolta insieme a Cecilia Frosinini, direttrice del Settore restauro pitture murali dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze, tramite la rivista ‘’Punto & Contropunto’’, afferma ‘’ [...] l’ampia offerta delle attuali tecnologie permette un’acquisizione duratura del bene […] Al di là di questo impiego, per così dire estremo però, i dati acquisiti consentiranno di migliorare enormemente le conoscenze dell’opera, con la possibilità di memorizzarle con modalità immediatamente fruibili. I vantaggi per i beni culturali sono indubbi e tali da consentire uno studio accurato del bene sull’immagine virtuale, altrimenti impossibile se non sull’originale.’’ (5) Un ulteriore riscontro positivo a riguardo lo ritroviamo anche nelle parole del Presidente della Fondazione Roma, Emanuele F. M. Emanuele, che riferendosi alla mostra e più nello specifico all’utilizzo dell’ RGB-ITR si esprimerà dicendo: ‘’ questo strumento così intelligentemente utilizzato, con questa capacità di far vedere la bellezza in tutti i suoi dettagli e di ricostruirla, è un elemento che secondo me va al di là di quello che ci si prefigge nel campo specifico cioè uno strumento di cognizione. un'opera di grande dimensione culturale e pedagogica che permette sinceramente di capire meglio le cose che, a volte, con la semplice visione istantanea non si riescono a vedere e a capire ‘’. (6) Ci troviamo di fronte a due mondi differenti, quelli di tecnologia e arte, che comunque interagiscono e dialogano tra di loro e nonostante molti continuino a prediligere l'arte in loco rispetto una riproduzione non si può che guardare con ammirazione questo processo evolutivo tecnologico. SITOGRAFIA:
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di Manuel Mohaddere Nel 2016 la Biennale di Venezia, in un progetto realizzato in collaborazione con il Victoria & Albert Museum, intitolato ‘A World of Fragile Parts’ curato da Brendan Cormier, ha affrontato il tema della riproduzione digitale delle opere d’arte e di tutte le questioni che la tecnologia apre rispetto alle nuove modalità di fruizione, di osservazione, di interpretazione. D’altronde la produzione di copie si sta rivelando in molti casi come un mezzo per ridurre i rischi che l’esposizione pubblica di un’opera comporta. I musei in tal senso hanno una lunga tradizione nella produzione di copie, proprio a partire dal Victoria & Albert Museum di Londra che nel 1867 lanciò una prima campagna internazionale per promuovere la riproduzione di calchi di gesso, fotografie ed elettroformature di opere d'arte. Da allora le copie hanno acquisito una nuova funzione: quella di documentare lo stato di conservazione di un’opera d’arte oltre a quella di preservarla ai rischi dell’esposizione pubblica. Ne è un esempio il busto di Nefertiti la cui sofisticatissima riproduzione digitale ha destato molto clamore a livello internazionle. Si tratta di un capolavoro dell’arte egizia, riportato alla luce un secolo fa in Egitto, appunto, e trasferito in Germania. Le autorità egiziane ne hanno richiesto la restituzione fin dalla sua presentazione a Berlino al pubblico nel 1924. Oggi esiste una dettagliata scansione tridimensionale del busto, al Neues Museum, che però non è stata ancora resa disponibile al pubblico. In risposta a ciò gli artisti Nora Al Badri e Nikolai Nelles hanno inscenato un furto d'arte ‘etico’, che hanno chiamato #NefertitiHack, che è consistito nello scansionare segretamente il busto usando un controller Kinect per Xbox. Il file digitale del busto è stato caricato in rete e reso di dominio pubblico sotto forma di file torrent. Gli artisti hanno esposto così l'esatta copia 3d del busto in Egitto per la prima volta. Dal febbraio 2010 è proibito scattare foto, una misura cautelativa per proteggere i pigmenti colorati, rovinati dai troppi flash. La scultura è comunque da tempo una delle opere dell'Antico Egitto più imitate, non di rado per scopi commerciali illeciti. Grazie ai dati diffusi online dai due artisti è ora possibile realizzare una riproduzione della testa regale precisa al centesimo di millimetro. Nel giro di 24 ore dalla pubblicazione ci sarebbero stati più di 1000 downoload del torrent originale e una copia sarebbe stata realizzata anche dall'Università Americana del Cairo. Secondo Al-Badri e Nelles le nuove frontiere tecnologiche offrono ai musei l'opportunità di restituire ai legittimi proprietari e alla loro identità storica milioni di reperti archeologici, che possono essere sostituiti da rappresentazioni digitali (sfruttando ad esempio le potenzialità della realtà virtuale) o duplicati con la stampa 3D. Partendo dalla mappatura, la paleo-artista Elisabeth Daynes ha ricostruito poi il volto in 3D della regina: un processo meticoloso che ha richiesto circa 500 ore di lavoro. Infine, i designer dell'atelier Dior hanno completato il lavoro progettando per Nefertiti gioielli fatti a mano, partendo delle illustrazioni geroglifiche che la ritraggono. Il risultato è stupefacente, ma non sono mancate le polemiche: l'imaging 3D infatti ha riprodotto perfettamente la struttura facciale della mummia, ma non l'incarnato e il colore degli occhi, affidati all'interpretazione dell'artista. Alcuni hanno così criticato la scelta di riprodurre Nefertiti con la pelle così chiara. Nonostante le critiche, la straordinaria scultura fornisce una rappresentazione accurata del suo aspetto andando ad aggiungere un altro tassello nella storia delle dinastie egiziane. Nefertiti è ricordata come una delle donne più belle della storia, ha governato durante uno dei periodi più prosperi del mondo antico. Ma come molte delle figure femminili più importanti della storia, la sua eredità è stata oscurata. La regina egizia ha governato a fianco del marito Akhenaton dal 1351 a.C al 1334 a.C. Il suo nome significa “la bella è arrivata” ed esso si riferisce alla funzione divina della regina, che è vista come l’incarnazione di una dea lontana, ritornata per poter donare il suo amore al Faraone. Durante il loro regno, i due coniugi cercarono di imporre una religione di stampo enoteistico, la quale prevedeva la superiorità del dio Aton nei confronti di tutti gli altri dei. Il busto originale di pietra calcarea non riporta alcuna iscrizione in geroglifici. Ha potuto tuttavia essere identificato come il ritratto di Nefertiti sulla base della caratteristica corona, che Ludwig Borchardt definiva "parrucca", in analogia con altre raffigurazioni. La scultura appartiene al periodo del re Akhenaton, perciò alla diciottesima dinastia (Nuovo Regno). Nell'ambito del periodo di Amarna, la creazione dell'opera, sulla base delle sue caratteristiche formali, è attribuita alla cosiddetta "tarda fase di Amarna", che coincide con gli ultimi anni del regno di Akhenaton. |
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Marzo 2024
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