di Ludovica Marolda Era il novembre 2012 quando, nel Palazzo della Carovana della Scuola Normale Superiore di Pisa (SNS), nasceva il progetto DREAMSLab (Dedicated Research Environment for Advanced Modeling and Simulations)[1]. Si trattava di uno spazio interattivo dedicato allo studio interdisciplinare di scienza, chimica teoretica e patrimonio culturale, attraverso l’utilizzo di sofisticate tecnologie quali, ad esempio, la Realtà Virtuale (RV), la Realtà Aumentata (RA) o la Virtualità Aumentata (VA)[2]. Nel 2016 DREAMSLab è entrato a far parte del nuovo laboratorio SMART (Smart Multidisciplinary Approaches for Research and Technology), un gruppo altamente qualificato, composto da oltre trenta collaboratori, fra ricercatori, post-doc e personale della stessa SNS, orientato alla ricerca e lo sviluppo di nuove metodologie basate sulla meccanica quantistica per lo studio di sistemi molecolari complessi[3]. Il fulcro del progetto era – ed è tutt’ora - lo spazio CAVE 3D, un ambiente formato da quattro pareti proiettive, volto alla creazione di esperienze immersive ad alta risoluzione. All’interno del CAVE, il visitatore può indossare occhiali 3D e osservare le immagini proiettate sugli schermi, come se fossero tridimensionali. Muovendosi, inoltre, lo spettatore può addentrarsi, immergersi in esse ed esaminarle anche attraverso l’utilizzo di funzioni interattive. Se è vero che il progetto DREAMSLab era, inizialmente, volto soprattutto allo studio di molecole, neuroni e piccole particelle del corpo umano, è sembrato quasi inevitabile, col tempo, orientare la ricerca anche verso la ricostruzione del patrimonio artistico-culturale. Uno dei primi studi ha riguardato, dunque, la ricostruzione 3D dell’Agorà di Segesta. A partire dai reperti archeologici l’antica piazza è stata fedelmente ricostruita, cosicché all’interno del CAVE è stato possibile proiettarne l’immagine digitale a 360 gradi. Con l’utilizzo degli occhiali 3D il visitatore può, ad oggi, vivere un’esperienza immersiva di forte impatto emozionale, oltre che altamente educativo. Il salto temporale è immediato: lo spettatore viene subito proiettato nel bel mezzo dell’antica cittadina della Sicilia occidentale. L’esperimento è stato effettuato anche con un’opera decisamente più vicina ai giorni nostri. Si trattava della Caverna dell’Antimateria, istallazione ambientale degli ultimi anni ’50 del Novecento, interamente realizzata dal pittore italiano Pinot Gallizio. L’opera d’arte, originariamente concepita per la Galleria d'arte René Drouin di Parigi, ne rispecchiava pedissequamente planimetria e dimensioni, che erano di fatto molto più estese dello spazio proiettivo predisposto dai ricercatori di DREAMSLab. All’interno del CAVE, tuttavia, sappiamo ora che lo spazio può essere ampliato in maniera indefinita, grazie all’utilizzo delle tecnologie 3D: basta infatti indossare gli appositi occhiali, ed ecco che il visitatore può allargare la visione davanti a sé, percepire oggetti e figure con una consistenza tattile incredibilmente realistica, ed esaminarne ogni particolare[4]. Lo scopo di DREAMSLab era, infatti, del tutto orientato all’utilizzo delle tecnologie digitali per permettere una fruizione dei beni culturali in senso prettamente scientifico. L’idea di immersione nell’opera d’arte non era volta al semplice intrattenimento del largo pubblico, ma alla riflessione accurata nei confronti del bene artistico. Certo è che, ad oggi, l’idea può non sembrare innovativa, dato che ormai le istallazioni immersive sono sempre più utilizzate, nei musei e nei centri culturali, per favorire nuove modalità di fruizione del patrimonio artistico. Ciò che colpisce, in verità, è che presso Scuola Normale Superiore di Pisa già dal 2012 si lavora in questa direzione. In un’intervista rilasciata alla RAI da Vincenzo Barone, il professore di chimica teorica si era espresso in questi termini:
“Immagina di poter entrare in un quadro, in un’opera d’arte che rappresenti una stanza medievale; di poter entrare in questa realtà e vedere la città che circonda l’opera d’arte, il mondo, la vita che si svolge nella sua quotidianità”[5] (Vincenzo Barone, professore di chimica teorica della SNS) È questa l’idea che era alla base del progetto DREAMSLab. Si immaginava di entrare fisicamente in un quadro e di partecipare alla vita dell’opera d’arte. Il riferimento all’immaginazione è, dunque, da non sottovalutare. Immaginare, di fatto, non significa inventare, ma guardare verso nuovi orizzonti di possibilità. Questo era l’obiettivo che il team della SNS si poneva, in prospettiva visionaria, nel novembre del 2012. [1] http://vis.sns.it/attivita/le-visite-al-cave-3d/ [2] http://smart.sns.it/?pag=smart_map [3]https://www.sns.it/it/laboratorio-strategie-multidisciplinari-applicate-alla-ricerca-alla-tecnologia-smart [4] http://dreamslab.sns.it/index.php [5] https://www.youtube.com/watch?v=EFKllY0loAU
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di Ludovica Marolda Il 21 giugno del 2018 ha aperto le porte a Tokyo, nell’isola artificiale di Odaiba, il rivoluzionario e atteso museo d’arte digitale giapponese, che prende il nome di Mori Building Digital Art Museum – teamLab Borderless[1]. L’affluenza ha raggiunto livelli incredibili, totalizzando 2,3 milioni di visitatori nel primo anno d’apertura[2], e diventando, così, il museo dedicato a un solo artista più visitato al mondo. Molteplici informazioni sono contenute nella denominazione dell’imponente costruzione. Viene subito chiarita la posizione della nota compagnia di imprenditori immobiliari giapponesi, Mori Building, che si è impegnata nel finanziamento dell’edificio[3]. In secondo luogo apprendiamo che si tratta non di una mostra, né di un evento temporaneo, ma di un museo interamente dedicato all’esposizione e alla fruizione di opere d’arte realizzate con i più sofisticati mezzi tecnologici. Il collettivo artistico internazionale teamLab Borderless, fondato nel 2001 dall’ingegnere informatico Toshiyuki Inoko[4], è andato progressivamente ad allargarsi fino a coinvolgere più di 500 collaboratori, fra ingegneri, artisti, designers, architetti, programmatori, animatori e matematici. Il gruppo teamLab è, ad oggi, rappresentato dalla galleria d’arte contemporanea Pace Gallery[5] di New York. Una volta varcata la soglia dell’edificio, il visitatore è invitato ad abbandonare quasi tutti i suoi effetti personali, rendendosi libero e pronto ad immergersi completamente nell’esperienza sensoriale che lo attende. Si tratta infatti di arte immersiva, il cui linguaggio è basato sulla sinergia di immagini, suoni, spettacolo e tecnologia, quanto mai capace di avvolgere e coinvolgere tutti i sensi dello spettatore ricorrendo alla multimedialità. [1] Sito ufficiale: https://borderless.teamlab.art/ [2]https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/business_wire/news/2019-08-08_1081989251.html [3] https://www.mori.co.jp/en/company/press/release/2019/06/20190620100000003902.html [4] https://www.teamlab.art/?submit=Toshiyuki%20Inoko [5] https://www.pacegallery.com/artists/teamlab/ Bisogna prevedere che la visita esperienziale duri almeno tre ore. Tutti gli ambienti sono prevalentemente oscurati e in ogni stanza vengono proiettate innumerevoli immagini digitali in movimento, accompagnate da suoni fiabeschi. L’iconografia riprende soprattutto la tradizione estetica giapponese, legata ad elementi naturali come fiori di ciliegio e girasoli, ma anche lanterne, onde marine, carpe koi o idiomi kanji che evocano concetti legati all’esistenza. Le immagini sono suscettibili della presenza dello spettatore: si muovono, spariscono, si trasformano in base ai movimenti del visitatore. Quando egli abbandona la stanza, l’immagine digitale può scomparire o seguirlo nell’ambiente successivo. In questo caso l’elemento dell’interattività si esprime in maniera assolutamente efficace e il pubblico non può fare a meno di partecipare allo spettacolo digitalizzato. Il percorso da seguire non è univoco, ma ogni visitatore può prendere più strade, perdersi e ritrovarsi in ambienti sempre nuovi. Nel percorso è presente anche una particolarissima zona relax con bar, dove chiunque può fermarsi a bere un tè: le immagini digitalizzate prendono vita anche nella tazza di tè (Tea Ceremony), e continuano ad esistere finché il liquido presente nella tazza di ciascun partecipante non è stato completamente bevuto.
La parte finale dell’esperienza immersiva si incentra sul movimento (Athletic Forest) e piace particolarmente al pubblico dei più piccoli. Sono presenti tappeti elastici su cui saltare, pilastri su cui arrampicarsi e enormi palloni colorati con cui giocare: le immagini digitalizzate si moltiplicano anche in questo spazio, incoraggiando la partecipazione attiva di ciascun visitatore. Il fenomeno dell’arte immersiva, pur sembrando molto attuale se associato al digitale, fonda le sue radici nella creazione stessa degli ambienti spaziali (che prendono avvio con l’arte degli anni ’50 di Lucio Fontana), dove lo spettatore non è più considerato come elemento passivo, ma adatto a relazionarsi con l’oggetto artistico. Col passar del tempo e con l’evoluzione delle tecnologie, l’importanza dell’evento in sé ha acquisito una sempre maggiore rilevanza e il focus principale è diventato l’esperienza estetica della partecipazione. Secondo questa visione il lavoro del collettivo teamLab sembrerebbe rispondere perfettamente all’esigenza di fruire dell’arte digitale in modo immersivo e interattivo. Tuttavia, nel percorso di visita esperienziale all’interno del museo non è quasi mai fornita una chiara indicazione sull’effettivo progetto scientifico di teamLab. Troviamo maggiori informazioni al riguardo navigando in Internet e consultando il loro sito in continuo aggiornamento. Molto interessanti sono le interviste a Toshiyuki Inoko dove viene chiarita l’importanza del progetto: “teamLab intende esplorare la relazione tra sé ed il mondo, e nuove percezioni attraverso l’arte. Per capire il mondo intorno a loro, le persone lo dividono in entità indipendenti, con confini percepiti tra di loro. teamLab cerca di trascendere questi confini nella nostra percezione del mondo, nella relazione tra sé e il mondo, e nella continuità del tempo. Tutto esiste in una lunga, fragile, anche se miracolosa, continuità della vita, senza confini”. (intervista di Marco Aruga per Digicult).[1] Se il Mori Building Digital Art Museum vuole essere, appunto, un museo, potrebbe essere efficace informare il visitatore riguardo le idee degli artisti e, magari, i mezzi tecnologici utilizzati. Unire l’aspetto dell’intrattenimento a quello dell’informazione e dell’educazione potrebbe rappresentare la strada giusta per l’implementazione dei musei dedicati all’arte digitale nel mondo. Dal canto suo, teamLab sta continuando ad espandersi, aprendo un nuovo Digital Art Museum a Shanghai[2] e programmando una prossima apertura anche a Macao[3]. In questa prospettiva il fenomeno espansivo del collettivo artistico è da non sottovalutare, per quanto riguarda la direzione che arte, tecnologia e musei stanno prendendo e prenderanno nel corso del ventunesimo secolo. [1] http://digicult.it/it/articles/the-beauty-of-a-borderless-world-interview-with-teamlab/ [2] https://borderless.teamlab.art/shanghai/ [3] https://www.teamlab.art/it/e/macao/ di Gabriele Gioni A seguito del DPCM dell’8 marzo del 2020, per il contenimento e il contrasto del diffondersi del virus Covid-19, che ha sospeso tutte le attività dei musei, degli istituti e dei luoghi della cultura di tutta Italia, il Ministro Dario Franceschini ha fatto appello agli operatori culturali di “usare al massimo i loro social e siti” per incoraggiare a non fermare le loro attività. Fortunatamente alcune istituzioni e musei già avevano realizzato degli strumenti che permettono, in questo particolare momento, di continuare a proseguire la loro mission culturale ottemperando allo stesso tempo alle disposizioni governative, come ad esempio i tour virtuali. I Musei Capitolini di Roma, sebbene a volte dimenticati dalle statistiche dei “grandi numeri”, sono da considersi museo per eccellenza: la sua apertura al pubblico avvenuta nel 1734 lo consacrò come il primo museo al mondo, inteso come luogo dove l’arte fosse fruibile da parte di tutti tutti, non solo dai proprietari della collezione. Forse è proprio questa vocazione pubblica che ha spinto la società capitolina Zètema, incaricata della gestione delle attività e servizi culturali e turistici, in collaborazione con HQuadro, a dotare il museo già nel lontano 2010 della possibilità di un tour virtuale, interattivo e multimediale. Un progetto già di per sé molto ambizioso, sia perché è stato fra i primi di questo tipo a essere realizzato nel nostro paese, sia in cosiderazione della vastità della collezione ospitata, nonché degli stessi spazi espositivi che si organizzano in quattro strutture distinte per una complessità di quasi 13 mila metri quadrati. Ne consegue la necessità di operare una selezione degli spazi da digitalizzare, motivata non solo dalla scarsità delle risorse disponibili, ma anche dalla tecnologia utilizzata che, seppur all’avanguardia per l’epoca, non permetteva una fluida ed agevole navigazione tra gli spazi. Infatti è stata la stessa Zètema a sottolineare che il progetto ha dovuto coinvolgere solo una parte dei musei, ovvero 45 sale per un totale complessivo di 71 hot spot o punti di osservazione a 360°. Avviare la visita virtuale dalla home del sito internet dei Musei Capitolini non risulta molto intuitivo; sono infatti necessari diversi click, prima di approdare finalmente al link diretto (http://tourvirtuale.museicapitolini.org/). Una volta caricata la pagina, seppure molto scarna, viene immediatamente richiesto al visitatore di scegliere in che lingua effettuare il tour: possibilità che ancora non è molto diffusa fra gli altri istituti culturali italiani, ma che sicuramente contribuisce a dare maggiore respiro al progetto, rivolgendosi a un pubblico internazionale. La presentazione si apre con una vista mozzafiato: il visitatore virtuale si trova proprio al centro di Piazza del Campidoglio, di fronte alla statua equestre di Marco Aurelio; la visuale a 360° permette al visitatore di ruotare su se stesso, potendo dare un’occhiata verso diversi scorci della Città Eterna, che spesso vengono celati dal trambusto metropolitano. Già tutto questo merita davvero una visita, sicuramente almeno virtuale! La grafica e i comandi di navigazione appaiono fin dall’inizio molto semplici e lineari, contrassegnati da un colore rosso che vorrebbe rimandare al porpora, simbolo cittadino e del sistema museale civico. Nonostante tutto, la modesta veste grafica risulta molto funzionale, sufficientemente intuiva e permette un corretto orientamento lungo il percorso offerto. Garantisce inoltre, grazie ad un menù a tendina posizionato in alto a sinistra, un facile reindirizzamento nei punti di partenza delle visite delle quattro sezioni in cui i musei sono divisi: Palazzo dei Conservatori, Palazzo Nuovo, Tabularium, la galleria lapidaria, oltre a permetterci di riammirare quando vogliamo la Piazza del Campidoglio. In basso a destra invece troviamo una barra con i comandi essenziali per assistere il visitatore al tour: le frecce direzionali, i pulsanti ‘più’ o ‘meno’ per ingrandire o diminuire la visuale, e per passare alla visualizzazione a schermo intero, ed anche un punto interrogativo per chiedere aiuto in caso di difficoltà. Accanto a questa barra troviamo una mappa interattiva dei musei, assolutamente necessaria per comprendere gli spostamenti all’interno delle singole sale e fra i quattro livelli che compongono la superficie espositiva. La mappa permette fin da subito di intuire la vastità del museo e la posizione dei singoli hot spot realizzati, dove però risaltano alcune lacune e carenze che non possono non suscitare alcuni interrogativi: come mai intere sezioni del museo sono state completamente escluse? Perché escludere della visita capolavori come il Ritratto di Carlo I d’Angiò del maestro Arnolfo di Cambio? Perché usare più punti di visualizzazione per certi ambienti del museo rispetto ad altri? Infine, è indubbio come lo strumento utilizzato non sviluppi appieno le sue potenzialità; anzi esso presenta, forse, certe carenze: il museo viene diviso in settori colorati, rispetto ai quali è completamente assente una legenda, né si capisce perché; inoltre, solo in corrispondenza del piano inferiore e del piano terra sono presenti delle icone che indicano, in maniera abbastanza intuitiva, alcuni servizi essenziali del museo che, come nel caso degli ascensori e delle toilette, sono del tutto superflui nel caso di un tour virtuale a distanza. Dopo aver compreso il funzionamento degli strumenti messi a disposizione, l’utente può procedere alla visita vera e propria, seguendo la freccia che indica il Palazzo dei Conservatori e che permette il traghettamento, per così dire, verso il prossimo hot spot all’interno del museo. Emerge però, a questo punto, un aspetto piuttosto sgradevole nella navigazione: una volta che si vuole visitare la sezione successiva, il punto di vista appare come ribaltato, in direzione di ciò che l’osservatore si lascia alle proprie spalle (ad esempio, se dal cortile si vuole salire al primo piano, quello che appare ai nostri occhi non è la Sala degli Orazi e Curiazi, bensì la scalinata vista dall’alto, costringendo ogni volta a girare la visuale per continuare naturalmente la visita). Oltre ad una prospettiva a 360° degli ambienti, si può sfruttare un altro menù che compare in basso a sinistra, che ci accompagnerà nell’esplorazione di ogni sala e permetterà di completare l’esperienza del tour. Nella sezione multimedia si trovano un’audioguida, dei video e delle foto con annesse didascalie legate agli oggetti esposti nella sala, permettendo così di avvicinarsi alle opere che i punti di visualizzazione a volte lasciano in disparte. Purtroppo, durante la visita virtuale risaltano alcuni importanti difetti: le immagini delle opere per sala sono poche; il player dell’audioguida, di cui non sono dotati tutti gli spazi espositivi, una volta avviatosi occupa lo schermo senza permettere né di continuare la visualizzazione a 360° dell’ambiente, né delle immagini proposte; per quanto riguarda i video non si riesce mai a riprodurli. Interessanti restano le foto storiche e le ricostruzioni grafiche che si trovano nei multimedia negli hot spot dell’esedra di Marco Aurelio e del Tempio di Giove Capitolino, un modello che andava sicuramente seguito per tutte le sale e che conferisce sostanza e più dignità ad una visita a distanza. Ultima nota dolente è il punto di osservazione che si trova al primo piano di Palazzo Nuovo dedicato al Gabinetto della Venere che non funziona correttamente, permette la visualizzazione dei file multimediali ma non degli spazi destinati ad ospitare la famosa Venere Capitolina. Diciamo la verità. Il tour virtuale dei Musei Capitolini appare oggi, sicuramente, uno strumento fin troppo datato che, oltre a certe sue deficienze progettuali, non è in grado di reggere il passare del tempo; cosa comunque molto comprensibile, visto il costante sviluppo delle tecnologie digitali che mutano anche nel giro di pochi mesi. Sitografia:
https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/politica-e-pubblica-amministrazione/2020/03/passare-cultura-web-social-franceschini-emergenza-coronavirus/ http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Franceschini-chiusi-in-tutta-italia-cinema-teatri-musei-7d46b967-d366-404b-9a9a-d39ba4b7077a.html http://tourvirtuale.museicapitolini.org/ http://www.museicapitolini.org/it/servizi/news/tour_virtuale_dei_musei_capitolini https://www.hquadro.it/site/?oxy_portfolio_image=musei-capitolini-2 https://roma.repubblica.it/cronaca/2010/07/27/news/musei_capitolini-5868093 di Veleria Gentili
L’M9Museum o Museo Multimediale del ‘900 è in polo museale dedicato alla storia del Novecento. È stato inaugurato nel 2018 dopo una lunga gestazione. Era il 2000 quando un comitato di cittadini di Mestre avanzò la proposta di recuperare un vecchio edificio scolastico abbandonato, per allestirvi un museo che ripercorresse la storia della città fin dalla sua fondazione antica, ove fossero esposti i reperti archeologici rinvenuti nel territorio. Questo progetto, così strutturato, venne dal sindaco rifiutato. La proposta fu però con forza rilanciata, grazie al sostegno che i cittadini ebbero da parte di Giorgi Sarto e dell’Assessorato alla cultura di Venezia, allorché si propose di realizzare un’esposizione intitolata Mestre ‘900, da cui si sarebbe sviluppato il progetto del “primo museo a Mestre” che illustrasse lo sviluppo storico della città, soprattutto tra gli anni Venti e Settanta del XX sec. Nel 2005 la Fondazione di Venezia (fondazione bancaria dell’ex Cassa di Risparmio di Venezia) decise di compiere un investimento oneroso per sostenere questo progetto: al prezzo di 30 milioni di euro acquistò un ampio lotto di terreno sul quale vi erano caserme dismesse, ed un isolato di 9000 m2 con vecchi edifici. Venne dunque bandito un concorso per la progettazione di M9, che fu vinto dallo studio tedesco di Matthia Sauerbruch e Louisa Hutton. I quali proposero un progetto basato sulla riqualificazione urbana integrando vecchi e nuovi edifici, costruiti secondo i principi dell’ecosostenibilità. Tra gli edifici riqualificati ed annessi al nuovo polo si impone l’ex convento benedettino di Santa Maria delle Grazie, del XVI sec. Il rivestimento esterno, in ceramica colorata, contraddistingue ed identifica a colpo d’occhio l’intera struttura sullo scenario urbano. Inaugurato il 1° dicembre 2018, nel solo primo mese di apertura ha attirato ben 12.000 visitatori. Ma qual è la caratteristica di questo museo? Il museo “prende vita” grazie alla partecipazione attiva del pubblico: l’interazione è alla base dell’esperienza che ogni visitatore fa nel museo. Ogni visitatore può infatti inventarsi di volta in volta un percorso diverso, in base ai propri interessi e curiosità, interagendo con i molteplici dispositivi multimediali. Per guidare il visitatore alla scoperta della storia dell’Italia del XX sec., sono state predisposte circa sessanta istallazioni multimediali ed interattive che includono: schermi interattivi (posti in orizzontale o verticale), approfondimenti audio-visivi, proiezioni virtuali a parete, istallazioni che ricostruiscono tappe storiche, mappe interattive, visori di realtà virtuale ed esperienze in ambienti immersivi. Questi sono poi accompagnati da fotografie e da svariati oggetti esposti, corredati da descrizioni audio e pannelli didattici. Questo tipo di allestimento immersivo e coinvolgente non riguarda solo la collezione permanente, ma anche le esposizioni temporanee, come quella attualmente in corso con il titolo “Luna City”, dedicata ai 50 anni dello sbarco dell’uomo sulla Luna. L’esposizione permanente dell’M9 è ospitata all’interno dei primi due piani dell’edificio principale. Il terzo piano è dedicato alle mostre temporanee legate al design, alle nuove tecnologie ed alle scienze. Il piano terra ospita un cinema dove è utilizzata la tecnologia 4K. Esoste poi uno spazio M- Children interamente riservato all’esperienza museale multimediale dei bambini. Occorre però osservare come durante l’emergenza COVID-19, il sito internet dell’M9Museum non proponga alcun tour virtuale, che non potrebbe in alcun modo sostituire l’esperienza immersiva del museo. Sitografia: https://www.m9museum.it/ http://www.fondazionedivenezia.org/activity/museo-m9/ https://www.artribune.com/arti-visive/2019/05/m9-mestre/ https://www.inexhibit.com/it/mymuseum/m9-museo-del-novecento-venezia-mestre/ https://www.beniculturalionline.it/location-704_M9-Museo-del-Novecento.php di Carlo Dell'Erba Nell’ambito della Biennale di Venezia del 2015, aperta al pubblico dal 9 maggio al 22 novembre, la mostra “Codice Italia” era ospitata all’interno del padiglione italiano, allestita da Giovanni Francesco Frascino, per quanto riguardava il progetto espositivo, e curata da Vincenzo Trione, docente universitario, collaboratore del “Corriere della Sera” e curatore di numerose mostre in musei italiani e stranieri. Sono stati invitati a esporre artisti diversi, accomunati dall’idea di rivolgere attraverso le loro opere e usando linguaggi diversi – pittura, scultura, disegno, fotografia, video, performance, cinema – uno sguardo sui momenti diversi della storia dell’arte italiana. Scriveva il curatore: “Pur seguendo strade differenti, gli artisti di Codice Italia vogliono reinventare i media e, insieme, frequentano in maniera problematica materiali iconografici e culturali già esistenti. Anche se in sintonia con gli esisti più audaci della ricerca artistica internazionale, si sottraggono alla dittatura del presente. Codice Italia vuole riattraversare significative regioni dell’arte italiana di oggi, facendo affiorare alcune costanti: assonanze poco manifeste, corrispondenze inattese, ripercorre rilevanti esperienze poetiche contemporanee, con l’intento di delineare i contorni di quella che, al di là di tante oscillazioni rimane l’identità italiana”. Insieme ai quindici artisti italiani, Trione ha chiamato a esporre le loro opere e a rendere omaggio al nostro Paese anche tre importanti artisti stranieri: il francese Jean-Marie Straub, il sudafricano William Kentridge e il gallese Peter Greenaway. Quest’ultimo parallelamente all’attività di regista cinematografico, iniziava sin dagli anni Novanta ad esporre soprattutto installazioni multimediali in numerose città europee. La sua arte, così come testimoniano i suoi film, è caratterizzata da un forte impatto visivo e da tematiche estreme come la sessualità e la morte: è l’arte stessa, intesa come strumento per interpretare la realtà, a diventare oggetto di riflessione alla base dei suoi lavori. Per quanto riguarda la pittura Greenaway è attratto specialmente dal Manierismo e dal Barocco, ritenendoli epoche molto affini alla nostra, in particolar modo perché in età manieristica e in età barocca non si fece altro che rielaborare spunti e motivi provenienti da età precedenti, come quella antica e quella rinascimentale. Greenaway è attratto soprattutto dalle opere di Bronzino, Veronese, Tiepolo. Il suo interesse per la storia della pittura si concretizza nel suo linguaggio cinematografico, a partire dalle singole inquadrature dei suoi film: queste sono realizzate come opere pittoriche, sia che si tratti di sceneggiature semplici e spoglie, sia che, al contrario, si tratti di scenari ridondanti e barocchi. L'obiettivo del regista non è quello di impressionare o emozionare lo spettatore con l'intreccio narrativo o con la spettacolarità dei suoi film, quanto quello di privilegiarne l'impatto visivo. Il suo desiderio è quello di far immergere chi osserva dentro il suo universo simbolico di forme, di sommergerlo con una serie infinita di dettagli e indizi, disseminati lungo tutte le sue inquadrature e facendo in modo che da ogni particolare sia possibile sempre dedurre nuove aperture e suggestioni. Greenaway, come Kentridge e Straub non fa altro che proporre una personale interpretazione del passato attraverso l’utilizzo di strumenti nuovi ed innovativi. Così a Venezia, nel 2015, Greenaway ha voluto proporre un vero e proprio viaggio attraverso la storia della pittura, dagli affreschi di Pompei ai dipinti di Morandi, passando per Leonardo, Raffaello e Michelangelo: il regista ha estratto una serie di "tasselli visivi" (libri, mani, sangue, occhi) per ricomporli inesieme mettendoli in dialogo tra loro. A proposito di questa installazione multimediale, Greenaway ha spiegato, in una sua intervista (https://www.youtube.com/watch?v=NKRTMKB2ijw) la sua idea di arte e, in particolare, il suo rapporto con l’Italia. di Sara Giovannozzi Caravaggio Experience è stata ospitata, dal 24 marzo a luglio 2016, presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma. La mostra proponeva un sistema di fruizione molto diverso da quello tradizionale: trentatre proiettori Canon Xeed offrivano ad alta definizione la visione di cinquantasette opere del Merisi su schermi scuri. Il percorso, che durava circa 48 minuti, era accompaganato addirittura da fragranze olfattive, oltre che da musiche originali composte da Stefano Saletti. L'intero progetto, coprodotto dall'Azienda Speciale Palexpo e da Medialart, era realizzato dai videoartisti di The Fake Factory, con la consulenza scientifica di Claudio Strinati e in collaborazione con Roma&Roma srl. L'evento ha suscitato reazioni molto diverse da parte del pubblico. In un articolo apparso sul «Messaggero», Luisa Mosello, che definisce l'iniziativa un "un omaggio davvero speciale", ha osservato che la "sorgente" di questa catena ormai serratissima di incontri tra l'arte e la tecnologia era stata la mostra "Uffizi Virtual Experience", che si tenne nella Fabbrica del Vapore di Milano agli inizi del 2016. Vincenzo Trione, sul «Corriere della Sera», ha scritto che eventi di questo tipo non sono altro che un modo per salvaguardare i quadri dai rischi legati ai continui e lunghi viaggi delle opere e che finiscono per assumere un carattere superficiale e "kitsch". "Nascono cloni intorno", le parole sono di Trione, "ai quali si costruiscono effimere macchine spettacolari. Simulacri in alta definizione vengono ingigantiti e proiettati su schermi. Sovente si monumentalizzano dettagli". Ma, continuava Trione, "dietro a questa macchina pedagogica, si nasconde solo furbizia commerciale". Perciò, per Trione, questi eventi sono semplicemente "trucchi orditi ai danni di ingenui spettatori". Yasmin Riyahi tentava di passare al vaglio i pro e i contro di un evento come Caravaggio experience. Vanno certamente a favore della mostra le seguenti motivazioni: - la lettura innovativa dell'arte, tramite la quale il fruitore non è più un semplice lettore, ma viene coinvolto dall'arte stessa del Merisi. -I video mostrano punti di vista diversi delle opere, entrano in maniera più aprofondita nel loro studio, focalizzandosi sui dettagli e isolando di sovente alcune figure sul fondo scuro degli schermi. Si dà pieno risalto alle tematiche pittoriche dell'artista. I contro: - Viene meno il rapporto diretto con l'opera. - Si accentuano certi aspetti drammatici delle opere di Caravaggio. - Le musiche che accompagnavano la mostra avevano poche variazioni di tono. - L'esperienza olfattiva era piuttosto inesistente. Fonti: https://www.palazzoesposizioni.it/mostra/caravaggio-experience https://spettacoliecultura.ilmessaggero.it/mostre/caravaggio_experience-1613259.html http://www.corriere.it/cultura/16_giugno_04/mostre-senza-opere-c3f0748a-29bd-11e6-aa4c-a2d9e3978e50.shtml http://www.unacasasullalbero.com/caravaggio-experience/ Di Amina Capuzzi
L’opera, presentata la prima volta a eLandscape-New Media Exhibition, al Museo della Scienza e della Tecnologia di Shangai, per eArts Festival 2008, arriva in Italia con l’ottava edizione di Digitalife. A promuoverla è Romaeuropa Festival, che la propone al pubblico dal 7 ottobre 2017 al 7 gennaio 2018 al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Autore è Jean Michel Bruyère, con il quale collaborano Matthew McGinity, responsabile della grafica e del design, Delphine Varas, curatore del montaggio e della pubblicazione e Thierry Arredondo, che ha scritto la musica. (1) La Dispersion du Fils ha come tema la tragedia di Atteone, che dopo aver spiato la dea Diana in un suo momento di intimità, viene da questa trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani: l’opera consiste in un viaggio immersivo attraverso strutture tridimensionali, costruite interamente con elementi audiovisivi estratti dagli archivi di LKFs, per un totale di oltre 600 tra film e colonne sonore che si intrecciano ininterrottamente. Ogni singolo momento è unico ed irripetibile. Lo spettatore ha una visione a 360°: ha la percezione di essere dentro la pancia di un serpente che lo inghiotte nel suo strisciare nel buio. (2, link al video a fondo pagina) Lo spettatore può esplorare i fili della narrazione il cui aspetto e distribuzione spaziale sono ridefiniti e ricomposti all’infinito. Il lavoro è stato sviluppato presso l’iCinema Centre for Interactive Cinema Research, della University New South Wales, e reso possibile da Advanced Visualization e Interaction Environment (AVIE), un sistema di visualizzazione interattivo ed immersivo, nato dagli esperimenti di Jeffrey Shaw. L’artista australiano afferma: «Nel 2008, dopo che il team di iCinema ha terminato la realizzazione di T_Visionarium II per la piattaforma AVIE, ho proposto a Jean Michel Bruyère di utilizzare sia questa piattaforma che il design dell'interazione di T_Visionarium II per sviluppare un nuovo lavoro utilizzando il proprio archivio video». Il T_Visionarium II è il software con cui è stata progettata l’intera opera, permette di sperimentare uno spazio all’interno del quale le immagini sullo schermo vengono riformulate e reimmaginate dinamicamente, in modo tale che gli spettatori possano esplorare una moltitudine di componenti narrative all’interno dell’ambiente di proiezione AVIE, a 360°. La Dispersion du Fils è progettata per svolgersi senza interruzioni per ore o giorni. La maggior parte delle recensioni rintracciate riguardano l’intera mostra Digitalife, con le sue sei installazioni, e sono tutte molto positive tranne una, che commenta negativamente l’aspetto della tecnologia. Non sono state reperite da giornali o riviste di critica d’arte, ma dai visitatori stessi che si sono offerti di esporre il loro pensiero riguardo l’esposizione appena fruita. (4, situate a fondo pagina) 1.http://www.epidemic.net/en/art/bruyere/proj/la_dispersion_du_fils.html2. https://museiincomuneroma.wordpress.com/2010/03/04/digital-life-jean-michel-bruyere/ 3. https://www.jeffreyshawcompendium.com/collaborative-project/la-dispersion-du-fils/ 4. https://theparallelvision.com/2017/10/11/digitalife-2017-arte-e-scienza-si-fondono-al-palazzo-delle-esposizioni/ http://www.wakeupnews.eu/digital-life-esperienze-sensoriali-offresi/ |
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