di Benedetta Ummarino
L’acquedotto dell’Aqua Virgo è stato il sesto acquedotto romano ed è ad oggi l’unico ancora funzionante. Fu costruito durante l’epoca dell’Impero Romano. Negli ultimi due millenni l’acquedotto, voluto da Marco Vipsiano Agrippa braccio destro e genero di Augusto, non ha mai smesso di portare acqua ai cittadini romani, e ha contribuito alla grandezza della città. Venne inaugurato il 9 giugno del 19 a. C. e la sua principale funzione doveva essere quella di rifornire le Terme di Agrippa, nella zona del Campo Marzio. L'intero percorso misurava 20,471 km, ed era quasi completamente sotterraneo tranne l'ultimo tratto di 1.835 m. che correva all'aperto, il condotto sotterraneo è largo in media 1,50 m. ed in alcuni tratti è percorribile e navigabile. Scavato direttamente nella roccia di tufo quando attraversava terreni compatti, in zone meno consistenti il condotto era costruito in muratura (1). Ancor oggi alimenta tre fra i capolavori artistici più ammirati e fotografati di Roma: la Fontana di Trevi, la Barcaccia di Piazza di Spagna e la fontana dei Quattro Fiumi in Piazza Navona.
Gli interventi sull’acquedotto furono tantissimi in diversi secoli, e cambiarono radicalmente sia il corso, sia la forma dell’opera. Molti canali furono “intubati” con opere in calcestruzzo, e anche la portata fu aumentata per captare nuove sorgenti. Attualmente l’acqua non è più pura come un tempo, ed è adatta soltanto a funzioni di irrigazione e scenografiche per opere pubbliche come, appunto, le fontane del centro di Roma (2).
Al piano meno uno della nuova Rinascente di Roma, è possibile visitare il sito archeologico con i resti dell'acquedotto Vergine, le arcate dell'Aqua Virgo (lunghe circa 60 metri) sono riemerse durante i lavori di edificazione: oggi resta visibile l'acquedotto, ma gli altri ritrovamenti (tra cui una domus del IV secolo d.C., un tratto della via Salaria e una serie di mosaici pavimentali di un complesso termale) sono stati reinterrati e vengono raccontati con la tecnologia attraverso un video proiettato all’interno della rinascente (3). Per gli appassionati di storia è stata un’eccezionale notizia, per la Rinascente un po’ meno, visto che si è dovuta sobbarcare il 100% delle spese di recupero e mettere in conto un ritardo di due anni per la fine della costruzione del centro commerciale. Per Francesco Prosperetti, Soprintendente di Roma, “la scoperta di ben 15 arcate dell’Acqua Vergine, tra i più cospicui pezzi di acquedotto romano all’interno della città, grazie alla collaborazione tra pubblico e privato, ha permesso la creazione di una nuova e preziosa area archeologica all’interno di Rinascente”. All'interno di uno spazio pubblico, aperto e senza biglietto: spiega ancora Prosperetti, verrà offerto qualcosa di unico al mondo: le arcate dell’Aqua Virgo, accompagnate da un racconto filologico con la suggestione delle ricostruzioni in realtà virtuale, che aiutano a conoscere l’acquedotto e la storia di quella parte della Roma barocca topograficamente così significativa sin dall’età antica (4). Il video che viene proiettato descrive con immagini e didascalie una spettacolare e dettagliata ricostruzione dell’Acqua Virgo. Sul muro è proiettata la ricostruzione visiva delle murature originarie dell’acquedotto nelle varie epoche storiche, infatti, presenta tratti dell’epoca romana (II secolo d.C. – III secolo d.C.), epoca medievale (XIV secolo) ed infine epoca moderna e i restauri (XVI e XX secolo). Per poi cominciare con le descrizioni in epoca romana di un cedimento che ha causato una frattura muraria, successivamente questa frattura è stata usata per ricavare una fontana. La fase tra il IV e il V secolo è quella più conservata tra cui possiamo trovare un impianto termale all’interno della domus, che era una residenza di grande lusso con pavimenti in marmi pregiati (le ricostruzioni presentano dei motivi geometrici molto colorati). La fine della rappresentazione termina con le immagini di frammenti architettonici trovati durante gli scavi. Lo spettatore è completamente proiettato in una dimensione di colori e suoni attraverso i quali ci si immerge nella ricostruzione dell’area dove adesso sorge la Rinascente. L’ atmosfera che si viene a creare grazie al lavoro di questi studiosi estranea totalmente le persone dal contesto in cui si trovano, per un momento tutto quello che riguarda il XXI secolo viene accantonato per tornare alle origini, a partire dall’ epoca romana (5). 1 https://it.wikipedia.org/wiki/Aqua_Virgo 2 https://www.vanillamagazine.it/aqua-virgo-l-unico-acquedotto-dell-impero-romano-ancora-funzionante/ 3http://www.askanews.it/video/2017/10/12/i-giochi-di-luce-dellacquedotto-vergine-alla-rinascente-20171012_video_16394718/ 4http://roma.repubblica.it/cronaca/2017/09/16/news/sotto_la_rinascente_scorreva_l_aqua_virgo_eccezionale_ritrovamento_sotto_via_del_tritone-175628773/ 5 https://www.youtube.com/watch?v=7VxBHXAq8Es
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Le grotte di Lascaux vennero scoperte il 12 settembre del 1940 da quattro adolescenti francesi Marcel Ravidat, Jacques Marsal, Georges Agnel, Simon Coencas. Queste grotte di 17 mila anni fa, sono composte da un complesso di caverne della Francia sud-occidentale, vicino ad un villaggio di Montignac nel dipartimento della Dordogna. Nel 1946, terminata la seconda guerra mondiale, le grotte vennero aperte al pubblico per la prima volta. Ma nel 1963 furono chiuse a causa del danneggiamento delle pitture parietali provocato dall’anidride carbonica prodotta dalle moltitudini di visitatori che entravano ogni giorno. Successivamente vennero effettuati dei restauri delle pitture che tornarono allo stadio iniziale. E fu solo nel 1979 che le grotte di Lascaux entrarono a far parte del patrimonio dell’Unesco. Nel 1998 le pitture vennero attaccate da funghi, e questo sgradevole episodio comportò la chiusura per effettuare una manutenzione delle grotte. Esattamente dieci anni dopo, nel 2008, con l’aggravarsi della situazione le grotte sono state definitivamente rese inaccessibili al pubblico.
Oggi queste pitture rupestri si possono ammirare in realtà virtuale presso delle sale appositamente allestite nel parco Le Thot, distante alcuni chilometri da Montignac. L’arte preistorica si sviluppa per circa 1 milione di anni, dalla comparsa dell’uomo sulla terra fino alla conoscenza della scrittura. Le prime forme artistiche sono riconducibili al paleolitico. L’uomo del paleolitico, nomade, viveva a stretto contatto con la natura. Si spostava seguendo le mandrie, viveva di caccia e di pesca e, la notte, si rifugiava in grotte e caverne come questa di Lascaux. Le immagini che ritroviamo sulle pareti delle grotte sono descritte attraverso delle linee essenziali e dipinte con colori come ocra rossa e gialla e carboncino. Queste immagini raffigurano cavalli, bisonti, tori rappresentati di profilo da soli o in gruppo su uno sfondo neutro senza la presenza di un paesaggio. L’uomo paleolitico non utilizzava queste raffigurazioni come decorazioni, bensì come riti religiosi di buon auspicio per le battute di caccia. Pensavano che le immagini potessero influenzare la vita che, a quel tempo, era ostile e piena di misteri e che gli uomini paleolitici non comprendevano. Potremmo dividere lo spazio interno delle grotte in settori, ognuno con le proprie caratteristiche e con le proprie pitture: La sala dei tori La sala dei tori, chiamata anche Rotunda, è un'estensione della zona d'ingresso. È lunga circa 20 metri e varia in larghezza tra 5,5 e 7,5 metri. Tra il soffitto e la parte inferiore, abbiamo una zona a sbalzo che contiene quasi tutta l'iconografia, che si estende ininterrottamente per una trentina di metri su entrambi i lati della sala. Le pareti di calcite estremamente bianche aiutano a mostrare i bellissimi dipinti murali contribuendo alla saturazione dei colori. Sono raffigurate 130 figure tra cui 36 rappresentazioni di animali e 50 segni geometrici. Questo ampio fregio è composto da tre temi di carattere animale che ricorrono costantemente nelle varie parti della grotta: cavalli (17), bovini (11 tra mucche e tori) e cervi (6). Eccezionalmente, viene raffigurato anche un orso. La galleria assiale Le figure sono situate su entrambi i lati di questa galleria lunga 30 metri. Questo spazio è stato chiamato la "Cappella Sistina della preistoria". Sulla destra ci sono tre pannelli:
Il passaggio Il passaggio collega la sala dei tori alla navata e l'abside. Contiene una grande concentrazione di immagini che sono spesso difficili da decifrare. Le figure che sono state ritrovate, contate ed identificate sono 385 che includono cavalli, bisonti, stambecchi, bovini, cervi, segni con forme di ganci, croci e quadrati. La navata Troviamo nella parte sinistra della navata 4 pannelli:
Questa distribuzione anomala delle pitture è causata dalla presenza del pavimento. Le specie raffigurate includono cavalli, stambecchi, cervi, bisonti con proporzioni diverse. I cavalli sono il tema dominante che ritroviamo in ogni altra parte della grotta, con 27 raffigurazioni separate nella navata. Camera dei felini Questa camera si estende per circa 25 metri, dove sono state ritrovate e contate 80 figure. Si individuano 51 figure di animali: il cavallo che è la specie dominante con 29 rappresentazioni, bisonti (9), stambecchi (4), cervi (3) e felini (6) ch sono rappresentati maggiormente qui che in altri punti della grotta. La distribuzione delle figure rappresentate è irregolare perché il 90% di esse si trova nei primi metri del passaggio che è il più stretto della Camera. L’abside L'abside contiene oltre mille figure. Includono quasi 500 animali e 600 segni o linee geometriche. Appaiono sulle pareti e sul soffitto senza nessuna interruzione. La densità delle figure aumenta all'ingresso e raggiunge il suo picco nell'abside, che si trova alla base del pozzo, la parte più lontana di questa galleria. Non troviamo solo rappresentazioni pittoriche ma anche figure create con la tecnica dell’incisione. L’albero L'albero contiene un numero limitato di figure in uno spazio di circa 3 metri: le figure in tutto sono 8: figure di animali (un cavallo, un bisonte, un uccello e un rinoceronte); forme geometriche (punti e ganci); al centro della composizione troviamo una figura umana.Questo è uno dei rari esempi in cui alcuni temi si riferiscono ad un episodio specifico, lasciandoci immaginare la possibilità che questo sia un messaggio da interpretare. di Eleonora Pillonca Nell'estate del 2017 Venezia è stata la protagonista dell'inaugurazione di MAGISTER[1], un nuovo fromat di divulgazione e valorizzazione culturale e artistica ideato dal Gruppo “Cose belle d'Italia”[2], associazione che si pone come obiettivo quello di tutelare il made in Italy e di divulgare e promuovere il patrimonio italiano a livello globale anche attraverso nuove e originali forme di promozione che abbiano una spiccata componente di intrattenimento.
Il progetto in questione si propone di celebrare l'eccellenza artistica italiana attraverso tre grandi eventi monografici a cadenza annua dedicati a maestri del passato: Giotto (2017), Canova (2018) e Raffaello (2019). Ognuna di queste esposizioni sarà organizzata e coordinata da un comitato scientifico istituito ad hoc, il cui obiettivo sarà quello di realizzare un evento innovativo che sappia conciliare l'eccellenza artistica delle opere di questi maestri con le nuove tecnologie al fine di creare un'esperienza immersiva e totalizzante ma anche di immediata comprensione e che possa dunque essere fruibile da un ampio pubblico. Il primo evento svoltosi nella Scuola Grande della Misericordia dal 13 luglio al 5 novembre 2017 è dedicato a Giotto[3], grande maestro del medioevo la cui arte pone le basi per la costituzione del rinascimento. Diversamente dai tradizionali metodi espositivi e dalle mostre considerate “tradizionali” l'intera esperienza di magister Giotto si svolge senza che lo spettatore venga mai a contatto con un'opera fisicamente presente all'interno dello spazio espositivo. La mostra che si articola all'interno di 7 stanze è interamente supportata da strumenti tecnologici, infatti vengono proiettate su degli schermi immagini dei capolavori giotteschi in altissima definizione e qualità. Lo spettatore li osserva indossando delle cuffie, il tutto è accompagnato dalla voce narrante di Luca Zingaretti e da brani musicali del musicista e compositore Paolo Fresu. L'obiettivo (espresso dal comunicato stampa[4]) è infatti quello di creare un percorso che sia verbale, visivo, musicale e funzionale alla conoscenza della rivoluzione attuata da Giotto alla fine del Medioevo. Luca Mazzieri, direttore artistico della mostra, spiega in un'intervista a “Il giornale dell'arte”[5] come l'intero progetto ruoti intorno alla volontà di servirsi delle nuove tecnologie come supporto sì fondamentale, ma non totalizzante; il loro impiego viene infatti subordinato all'esigenza di valorizzazione dell'artista che deve rimanere il nucleo centrale dell'intero racconto. Tecnologia dunque a servizio dell'arte e della divulgazione e non retoricamente ripiegata nel suo spettacolarismo L'unica opera fisica con cui entra a contatto lo spettatore è situata all'ingresso del percorso ed è la Croce del presepe di Griecco, ricostruita basandosi sull'omonimo affresco del maestro fiorentino. La giornalista di “La Repubblica” Melania Mazzucco, propone un parallelismo affascinante tra l'opera giottesca e l'allestimento della mostra partendo proprio dal significato di questa croce:’’Ciò che Giotto rappresenta nel Presepe è un episodio " teatrale" della vita di Francesco. Il futuro santo allestisce nel borgo reatino di Greccio una sacra rappresentazione per rievocare la nascita di Gesù. Ma quando va a prendere nella culla il bambino per adorarlo, si trova a sollevare una creatura in carne e ossa. Una mostra come Magister Giotto fa in fondo la stessa cosa di san Francesco. Allestisce una rappresentazione per rievocare la nascita di Giotto e il miracolo della sua arte. Lo fa in assenza — in assenza della carne dell'arte […] La sua " missione" è che per cinquantaquattro minuti nella " culla" della Misericordia si crei il miracolo della presenza.”[6] L'ultima sala viene segnalata come di particolare interesse da “Il sole 24 ore”[7]:viene qui ricordata l'intercettazione nel 1986 a opera dell'agenzia spaziale della cometa di Halley, che Giotto dovette vedere tra il 1301 e il 1302 e che riprodusse nell'adorazione dei magi nella cappella degli Scrovegni di Padova. Il format studiato prevalentemente per il mercato estero sarà esportato, nella primavera 2018, è infatti previsto il suo allestimento in Giappone nelle città di Tokyo e Kyoto. SITOGRAFIA: [1] Trailer della mostra: https://www.youtube.com/watch?v=DbDaW3IndkA [2] Sito ufficiale dell'associazione: http://cosebelleditalia.com/it/Home [3] Sito ufficiale della mostra: http://www.giotto-venezia.magister.art/ [4] http://www.giotto-venezia.magister.art/press/ [5] http://ilgiornaledellarte.com/articoli/2017/5/127806.html [6] http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/07/09/lo-show-di-giotto64.html [7] http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-07-17/magister-ioctus-che--spettacolo-121805.shtml?uuid=AEbyI9uB&refresh_ce=1 di Alice Simoni
Tra gli obiettivi dell’attività di ricerca e sviluppo dell’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), nel settore dei beni culturali ci sono, in particolare, la diagnosi dello stato di “salute” dei beni artistici e la loro tutela dal rischio di deterioramento o sismico. L’ENEA dispone di una task-force di ingegneri e geologi e di attrezzature uniche in Italia, come le due “tavole vibranti” del Centro ricerche Casaccia (Roma), speciali basamenti antisismici, come quelli impiegati nella protezione dei Bronzi di Riace, volte a effettuare prove e simulazioni per la sperimentazione sismica. PROTEZIONE SISMICA DEI BRONZI DI RIACE Gli innovativi basamenti su cui sono posizionati i Bronzi di Riace, per la loro esposizione all’interno del Museo Archeologico Nazionale della Magna Grecia in Palazzo Piacentini di Reggio Calabria, sono un progetto ENEA. Studiati e testati nei laboratori del Centro di ricerche ENEA della Casaccia di Roma, essi assicurano il massimo isolamento dai terremoti. I basamenti antisismici sono costituiti da due blocchi di marmo di Carrara sovrapposti scavati internamente per ospitare quattro calotte concave, nel mezzo delle quali sono collocate quattro sfere, anch’esse di marmo per l’isolamento sismico dalle oscillazioni orizzontali. Completano la struttura elementi dissipativi in acciaio per l’isolamento dalle oscillazioni nella direzione verticale. In presenza di un terremoto sarà la parte sottostante della base a subire l’azione sismica, che si muoverà con il terreno senza però trasmettere le sollecitazioni alla parte superiore del basamento e quindi alla statua. Le basi sono state sottoposte a verifica sperimentale sulle tavole vibranti presso il laboratorio di “Qualificazione di Materiali e Componenti”. Le tavole vibranti, impianti sperimentali complessi, di grandi dimensioni, in grado di riprodurre i terremoti reali, hanno sollecitato le basi su cui erano state collocate copie dei bronzi, portandole a subire anche scosse d’intensità superiori al livello massimo previsto per il sito del Museo a Reggio Calabria. La realizzazione di queste basi è stata resa possibile tramite la convenzione stipulata dall’ENEA e la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria. IL LABORATORIO CONTROLLI NON DISTRUTTIVI L’ENEA è dotato di un Laboratorio per CND che opera nella diagnostica in campo industriale, civile e dei beni monumentali. Il Laboratorio può effettuare: caratterizzazione e analisi difettologica di componenti e nuovi materiali; caratterizzazione sonde e strumentazione per CND; sviluppo di software dedicato ai sistemi automatici per i controlli non distruttivi; formazione. Il Laboratorio, entrato in funzione nel 1980, dispone di un laboratorio sistemi automatici e sviluppo software, tecnologie laser e controlli visivi, termocamere, un archivio difettologico e diagnostica civile (CLS), un bunker radiografico. Il laboratorio ha lo scopo di porre al servizio dei restauratori, dei progettisti, delle soprintendenze, degli enti pubblici e delle imprese di restauro un gruppo scientifico in grado di offrire una qualificata gamma di servizi specialistici di analisi, indagini diagnostiche e di consulenza per la progettazione del restauro relativamente sia ai materiali che alle strutture. di Federico Grassi La “Ronda di notte”, dipinta da Rembrandt nel 1642, si conserva oggi presso il Rijksmuseum di Amsterdam. Il grande dipinto, che contava tra le sei tele commissionate a vari artisti di Amsterdam per celebrare l’ingresso in città di Maria de’Medici, era stato commissionato dal capitano della guardia civica, Frans Banning Cocq, e raffigura lo stesso capitano, assieme ai suoi quindici ufficiali, nel momento in cui dà l’ordine di iniziare la marcia. Inizialmente tagliata per essere inserita in uno spazio fra due porte nel Municipio della città, l'opera fu oggetto di vari atti vandalici nel coso del tempo, finché fu restaurata fedelmente, sulla base di varie copie esistenti, come oggi la possiamo ammirare nel museo olandese. Sono trascorsi quasi tre secoli dalla composizione dell’opera. Oggi, immersi come siamo nell'era del digitale, pare che non ci bastino più le tradizionali modalità di fruizione dell'arte; sentiamo il bisogno di espedienti nuovi, che, di pari passo con l’innovazione tecnologica degli ultimi anni, ci permettano di osservare le opere d'arte del passato con occhi sempre diversi. A farsi interprete di una simile esigenza, è stato il pittore e sceneggiatore di origine gallese Peter Greenaway il quale ha realizzato un lungometraggio, Nightwatching, precisamente un dramma ironico in costume su Rembrandt e sul suo massimo dipinto che fu all’origine della sua fama ma anche delle sua rovina. Il film, uscito nel 2007, è ambientato nel 1642 e mette in scena il pittore olandese, interpretato da Martin Freeman, nel momento in cui, dopo le insistenze della moglie Saskia, accetta di ritrarre la Milizia civica di Amsterdam su commissione del capitano Frans Banning Cocq, anche se dipingendo intuisce che la Milizia tramava qualcosa. Scopre infatti che la Milizia, gruppo di ricchi borghesi vestiti da soldati benché la guerra contro la Spagna fosse finita, si era macchiata di atroci crimini, addirittura contro uno dei sui membri che il pittore stava ritraendo. Il pittore, dunque, pensa di servirsi del proprio quadro, la "Ronda di notte" appunto, per denunciare pubblicamente il responsabile di tali crimini. La Milizia reagisce immediatamente corrompendo varie figure e trascinando il pittore in un vortice di eccessi e vizi sfrenati che determinano in poco tempo la distruzione della sua reputazione e dunque la sua morte sociale; ben presto la borghesia cittadina viene infatti a conoscenza delle sue azioni e il pittore inizia ad essere emarginato e disprezzato da tutti. Rembrandt si ritrova improvvisamente solo e povero, rinnegato dalla società, bersaglio di continui attacchi, anche fisici, da parte della Milizia. Malgrado le manovre di quest’ultima per isolarlo e farlo sprofondare nell’oblio, la "Ronda di notte" è tuttavia destinata a divenire la sua opera più famosa, senza però che nessuno per secoli ne sospettasse le delicate e intrigate implicazioni socio-politiche. Il regista porta lo spettatore a concentrarsi su quattro aspetti che caratterizzano la personalità dell’artista: denaro, sesso, cospirazione e pittura. Ma allo stesso tempo ci pone un interrogativo di carattere filosofico, espresso dallo stesso Greenaway: “Come è stato possibile che un pittore così straordinariamente ricco e rispettato per metà della sua vita, abbia potuto morire nell’indigenza? Che cosa in realtà fa la pittura? Potremmo porci la stessa domanda per quanto riguarda il cinema”. Il film è stato molto apprezzato dalla critica in occasione della 64° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e ha riscosso ampio successo anche fra i non-addetti ai lavori, come emerge dall’ascolto delle molte opinioni sul web e sui quotidiani. Particolarmente significativa e illuminante trovo sia la recensione fatta sul sito internet www.mymovies.it da un utente il quale insiste sulla genialità del regista nel creare giochi chiaroscurali, una perfetta traduzione dinamica, cinematografica di quegli espedienti tipici del pittore olandese che in un certo senso può essere considerato l’inventore del moderno cinema, caricando le sue opere di movimenti e suoni : “ Il personaggio di Rembrandt trova la sua forza nei comportamenti quotidiani, nel rapporto con la moglie, nei suoi sogni visionari, ma soprattutto nell’abilità del regista di costruire in ogni immagine dei veri e propri 'tableaux vivant', dei giochi chiaroscurali di luci e ombre che sono la perfetta trasposizione in movimento dei dipinti/fotogrammi di Rembrandt, autentico anticipatore della settima arte. Il movimento dei personaggi nel campo non fa che arricchire la sua pittura. E, a differenza che in altre opere di Greenaway, qui il suo stile intrinsecamente pittorico, curatissimo ed estetizzante, non scivola mai nel freddo manierismo, ma è funzionale alla messa in scena e al contenuto di un profondo e coinvolgente ritratto d’artista. Un artista che probabilmente è stato, senza saperlo, il primo uomo di cinema della storia...”. Particolarmente interessante è l’articolo del giornalista Roberto Nepoti su La Repubblica, uscito il 7 settembre 2007. Vi si spiega come Greenaway abbia concepito il suo film prezioso, misterioso, elegante e appassionante, partendo dall’assioma “ogni quadro racconta una storia”, incentrato proprio sul quadro e sull’atto di accusa contro i committenti in esso contenuto. Leggiamo alcuni passi dell’articolo al fine di addentrarci nel giudizio che il giornalista ha espresso al riguardo: “Greenaway, che viene dalla pittura e della pittura ha sempre sostanziato il proprio cinema, dice: «Rembrandt non è mai stato tra i miei artisti preferiti; però mi ha appassionato il mistero di questo quadro, che contiene ben cinquantun enigmi; e che fece di lui il più celebre pittore d'Europa dopo Leonardo e Michelangelo. In più, mi intrigava la sua personalità di uomo democratico, repubblicano, femminista e post-moderno. Con tali premesse, il -rischio era che Nightwatching diventasse un film pittorico e statico, una sequenza d'inquadrature concepite come dipinti in movimento. Fortunatamente, Greenaway è intellettuale troppo sapiente per cadere nel tranello. Le sequenze evocano sì le luci e i colori rembrandtiani («È stato uno dei primi artisti a dipingere alla luce artificiale delle candele; e proprio da questo discende il cinema»); però le immagini sono movimentate, rese dinamiche da carrellate a seguire che aprono e dilatano lo spazio. Lungo due ore e un quarto, il film si segue con interesse e partecipazione; diversamente dalle ultime opere del regista, sperimentali e vicine a un concetto di "arti visive" che travalica il cinema in senso. In Nightwatching ci sono cinema e pittura, musica e teatro”. Per concludere, Il film ha avuto l’importanza e il merito di offrire, con strumenti tecnologici e contemporanei, una interpretazione, un focus su un’artista del passato, di un passato che non è poi così lontano e distante ; attraverso la proiezione video e l’utilizzo geniale delle luci da parte di Greenaway, riusciamo perfettamente a cogliere un aspetto fondamentale del pittore, alla maggior parte sfuggito e sconosciuto per secoli, ossia quella sua capacità di fare cinema nell’arte, all’interno dei suoi quadri, poiché, pur senza saperlo, Rembrandt dipingendo diveniva anche un regista, animando i suoi personaggi e le sue scene di un armonico dinamismo costituito da suoni e moti. Spontanea e opportuna si rende a questo punto una breve riflessione sul rapporto fra arte e tecnologia. Non tutti concordano con l’utilizzo delle nuove tecnologie per la valorizzazione dell’arte; se da un lato una visita al museo per ammirare delle opere d’arte è un’esperienza indimenticabile e vissuta decisamente in modo più profondo rispetto ad uno schermo, dall’altro le nuove tecnologie innegabilmente aiutano a comunicare, a promuovere e a diffondere le informazioni legate al patrimonio culturale. È un elemento importante per un paese come l’Italia, ricchissimo di risorse culturali e di opere d’arte, ma ancora troppo poco valorizzate, proprio per la loro numerosità. LINK ESTRATTI FILM : OFFICIAL TRAILER: https://www.youtube.com/watch?v=JN2eLySBIMc SCENA DELL’INAUGURAZIONE DEL DIPINTO: https://www.youtube.com/watch?v=RINR03lli4w CREDITI: https://www.google.it/search?q=nightwatching+peter+greenaway&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwjL16TXip_aAhUIzKQKHQsBAxsQ_AUICygC&biw=1366&bih=599#imgrc=CZ_IV-7yxarrkM:&spf=1522792178747 http://www.artribune.com/television/2016/11/video-nightwatching-peter-greenaway-rembrandt-film-cinema/ http://www.google.it/url?sa=i&rct=j&q=&esrc=s&source=images&cd=&ved=&url=http%3A%2F%2Fwww.cultorweb.com%2FRembrandt%2FR.html&psig=AOvVaw3oNg0H-pIhgMPF4js0GXaQ&ust=1522879164966746 di Davide Pellicciari Shirley. Visions of reality è un lungometraggio sperimentale scritto e diretto da Gustav Deutsch e uscito nelle sale cinematografiche italiane nel 2013. Il regista austriaco, già artista e architetto, si cimenta per la prima volta in un progetto sperimentale sull’opera dell’artista statunitense Edward Hopper, in particolare su quei dipinti che ritraggono, tra gli anni Trenta e i Sessanta, la giovane Shirley, che in realtà è la moglie del pittore, Josephine. Shirley è ritratta da Hopper in tutta la sua amara solitudine, sempre in bilico tra realismo e irrealtà, nell’incertezza di quello che potrebbe accadere da un momento all’altro, nella ossessiva immobilità del tempo che lo spettatore percepisce: guardando i quadri di Hopper, lo spettatore si identifica con Shirley, si aspetta anche lui che qualcosa possa accadere, che lo aiuti a valicare quelle atmosfere sospese, silenziose, poco vivaci, in direzione di una “luce”. Così Shirley. Visions of reality è il racconto di una disillusione, il racconto di una “mancata identificazione con lo stereotipo americano” (http://www.lucenews.it/shirley-visions-of-reality-verita-della-luce-visioni-architettura-interni/). Ora il regista austriaco Deutsch ha trasformato in opere cinematografiche ben tredici dipinti del “de Chirico americano”. I tredici “tableaux vivants” in cui si articola il lungometraggio ripercorrono la storia americana lungo trent’anni. È grazie alla fotografia di Jerzy Palacz che Deutch ricrea l’universo emotivo di Hopper: questa è l’alchimia di tutta la carriera stilistica dell’artista Hopper, riflessa nella giovane promessa Shirley. Ma chi è questa giovane eroina? È attrice impegnata nel teatro e nella recitazione, appassionata lettrice della Dickinson e di Platone, che vive e riflette tutti i lati positivi e negativi del sogno americano che si perseguiva in quegli anni. In Shirley. Visions of reality la vita della donna a cavallo tra il 1931 e la fine degli anni ’60 è interpretata dalla ballerina e coreografa Stephanie Cumming. Nello stesso arco di tempo vengono riproposte le principali opere di Hopper, che diventano le scenografie dei brevi e intensi “stream of consciousness”, i monologhi interiori dell’artista, dove vengono analizzati attualità politica, lavoro, tematiche sociali, ansie e sogni dell’America di quegli anni. Non a caso il “film è puntellato di rimandi alla storia americana. I titoli che introducono le tredici scene e alcuni frammenti di trasmissione di notizie rendono la storia di Shirley rappresentativa della storia politica, sociale e culturale dell’America di quei decenni: Pearl Harbour e la seconda guerra mondiale, la bomba atomica e la "conquista dello spazio", l'assassinio di John F. Kennedy e l'inizio della guerra del Vietnam, Duke Ellington e il suono big band, Billie Holiday, Elvis Presley, Bob Dylan, il crollo del mercato azionario, la depressione, il fordismo e le autostrade interstatali, il Ku Klux Klan e le rivolte razziali, la marcia su Washington e Martin Luther King. Shirley vive e riflette tutto ciò come attrice impegnata e come donna emancipata. Le piace il jazz, ascoltare la radio e ama i film”( http://www.bcomeblog.com/articoli/articolo/196/Shirley---Visions-of-reality). Non è un caso il videoartista austriaco abbia scelto di lavorare sull’opera di un artista che il grande Hitchcock aveva già indicato come fonte di ispirazione per la propria scenografia, riguardo per esempio all’utilizzo della luce. Quadri come “Hotel room”, “New York movie”, o “Morning sun”, o ancora “A woman in the sun”, prendono letteralmente vita, lasciando vagheggiare qualcosa che realmente può succedere in quelle atmosfere: ed in effetti in quei “tableaux” qualcosa accade sempre. Tutto il film è incorniciato dalla tela del 1965 “Car chair”, dove la protagonista è intenta a leggere un libro di poesie di Emily Dickinson: il dipinto funge da filo conduttore per la storia, quasi un simbolo di attesa e immobilità, un viaggio senza fine. Gustav Deutsch già nel 2010 aveva contribuito alla prima mostra in Italia su Hopper, tenutasi nello splendido contesto del Palazzo Reale di Milano. In particolare egli curò l’installazione che chiudeva la mostra, “Friday, 29 th August 1952, 6 A.M, New York”, niente meno che la ricostruzione della scenografia del noto dipinto di Hopper in “Morning sun”: in tal senso quindi “tutti possono diventare attori di quel dipinto, abitarlo e muoversi al suo interno come attori per caso, filmati da una telecamera”, come si legge in un recente libro, “Contro le mostre”, pubblicato per Einaudi da Tomaso Montanari e Vincenzo Trione; in particolare, a proposito dell’iniziativa di Palazzo Reale del 2010, i due autori appena citati parlavano di “amusement mania”, ovvero di quel tipo di intrattenimento leggero che le mostre odierne sembrano voler cercare a scapito di contenuti culturali più seri: il rischio è quello di “confondere cultura e svago… intellettualizzazione coatta dello svago”. In questo contesto come si può collocare il film diretto da Deutsch? Forse solamente un’opera cinematografica diversa, che riesce ad unire video-performance, teatro e cinema: l’autore ha avuto la capacità di costruire una storia ai 13 quadri di Hopper, e di “non essersi cristallizzato in un puro omaggio visuale, celibe e sterile, al gran pittore della vita americana del Novecento.” (nuovocinemalocatelli.com/2016/07/05/visti-shirley-visions-of-reality/). “Non possiamo che parlare con i nostri dipinti” – Vincent van Gogh di Giulia Adami La figura di Vincent van Gogh non smette di affascinare e appassionare milioni di persone in tutto il mondo, incuriosite dal quel personaggio tanto sfortunato nella sua vita quanto apprezzato dopo la sua morte, dall’artista visionario capace di raccontare su tela la sua visione esasperata del mondo e il suo malessere, dalla sua capacità di ‘sentire con gli occhi’. Dopo il grande successo di ‘Van Gogh Alive- the experience’, (la mostra multimediale più visitata al mondo), arriva finalmente al cinema una nuova esperienza visiva interamente dedicata al nostro amato artista olandese: esclusivamente nei giorni 16, 17 e 18 Ottobre 2017 è stato possibile osservare i capolavori di Van Gogh prendere vita nel meraviglioso lungometraggio ‘Loving Vincent’ scritto e diretto da Dorota Kobiela e Hugh Welchman, prodotto da Nexo Digital, in collaborazione con Adler e i media partner Radio deejay, Sky Arte HD e Mymovies.it. Un innovativo incontro tra arte e tecnologia vincitore del premio del pubblico al festival d’Annecy. Si tratta del primo lungometraggio interamente dipinto su tela, da 125 artisti, i quali hanno seguito corsi di formazione per avvicinarsi nella realizzazione della pennellate, dell’uso dei colori e dello stile tipico di Vincent e che per circa due anni si sono impegnati assiduamente realizzando questo film partendo proprio dalle opere e dallo stile inconfondibile di Vincent Van Gogh. Risultato di tale impegno è stata la realizzazione di ben 62.000 dipinti ad olio ispirandosi alla sua ‘maniera’, successivamente animati e montati in un lungometraggio dalla durata di 80 minuti, ottenuti mescolando pittura ad olio, tecnologia, riprese dal vivo e computer grafica. Il budget del film è stato di 5.500.000 dollari, in parte finanziato con una campagna su Kickstarter, sito web nato per il finanziamento collettivo per progetti creativi. Effettivamente ‘Loving Vincent’ è il primo film realizzato con questa tecnica, che consiste in una postproduzione la quale trasforma in “pittura animata” i fotogrammi delle scene che sono state veramente girate da attori; secondo alcuni esperti ogni secondo del film conterebbe almeno dodici tele dipinte a mano: questo solo dato, ci lascia immaginare l’immenso lavoro impiegato. Nel lungometraggio prendono vita anche le opere stesse di van Gogh, i suoi luoghi, ma soprattutto alcuni dei suoi più celebri personaggi, come Armand Roulin, Adeline Ravoux, il dottor Gachet e naturalmente l’artista stesso: novantaquattro quadri di van Gogh sono riprodotti in una forma simile a quella originale e più di trentuno dipinti sono rappresentati parzialmente. Il film quindi si pone il compito di raccontare la tormentata vita di Vincent attraverso le sue opere e le oltre ottocento lettere ritrovate in cui è lui stesso a dar voce ai suoi pensieri. «Non possiamo che parlare con i nostri dipinti», sarà questa frase contenuta in una delle sue lettere ritrovate a dare l’illuminazione per la realizzazione di questo moderno capolavoro.
La narrazione è raccontata a posteriori, dopo la morte del pittore, e si apre in Francia esattamente nell’estate del 1891 quando Armand Roulin, un giovane fannullone e privo di interessi, viene incaricato da suo padre, il postino Joseph Roulin di consegnare una lettera molto importante a Parigi; si trattava di una lettera di Vincent e il destinatario era suo fratello Theo. Il giovane si mostra inizialmente contrario, poiché imbarazzato per l’amicizia del padre con questo artista olandese così disturbato che da poco si era tolto la vita, ma decide comunque di accettare; a Parigi però non c’è alcuna traccia di Theo, e questo porterà il giovane prima dal commerciante di colori Père Tanguy, poi fino al villaggio di Auverse-sur-Oise, a un’ora da Parigi, dove l’artista ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita, per consegnare la famosa lettera al dottor Gachet, medico che si occupò di lui. Qui Armand, ormai affascinato e curioso di conoscere la vera anima di questo pittore olandese, avrà la possibilità di rivivere i luoghi che lo avevano accompagnato fino alla morte e di conoscerlo attraverso le persone che gli erano state accanto negli ultimi attimi di quella vita che si spense nel 1890 per un proiettile all’addome. Flashback in bianco e nero affiancano la narrazione pittorica per raccontare momenti non presenti nelle opere di Vincent: così insieme a lui possiamo rivivere sullo schermo la locanda dei Ravoux, la figlia e la domestica del dottore, il barcaiolo conosciuto per via delle numerose giornate trascorse al fiume. Il pubblico ha dimostrato grande apprezzamento per questo moderno capolavoro, tanto che verrà replicato eccezionalmente il 20 Novembre 2017 per permettere di soddisfare la grande richiesta e magari anche di riviverlo: infatti in tre giorni di programmazione il film ha rappresentato il 50% degli incassi totali di tutti i cinema italiani, 283 sale, di cui moltissime sold out; Le recensioni e i commenti stessi ci dimostrano ancora una volta quanto il personaggio di Van Gogh continui ad essere vicino all’interesse contemporaneo di tutte le fasce di età: «E vale la pena di aspettare i titoli di coda che mettono a confronto quadri e persone con fotogrammi e attori. [...] imperdibile per gli appassionati e anche solo per i curiosi.» (Antonello Catacchio, 'Il Manifesto', 12 ottobre 2017, https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/loving-vincent/61447/). O ancora: «Loving Vincent è un film speciale, inaspettato. Non è facile descriverlo, e forse è meglio così, perché vale la pena lasciare a chi varca le sale il 16, 17 e 18 ottobre, l’effetto sorpresa.» (http://www.arte.it/notizie/roma/loving-vincent-la-nostra-recensione-13529). Seppur in minoranza possiamo trovare sul web alcune opinioni non del tutto entusiaste: « […] originariamente inteso quale cortometraggio di sette minuti dipinto dalla sola regista, il gonfiaggio al lungo non è in toto crescita felice, ma qui e là permeabile alla noia, ché si carbura lentamente e la 'detection' di Armand è sovente farraginosa. Nulla di compromesso, al contrario, 'Loving Vincent' conferma il senso dei polacchi per l'animazione [...].» (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 21 settembre 2017, https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/loving-vincent/61447/). Tra recensioni sbalorditive e alcune più incerte, è però certo che questo innovativo lungometraggio ci offre importanti spunti di riflessione sul nostro modo di vivere l’arte nel XXI secolo, e ci ricorda che non esistono limiti nel mondo della storia dell’arte, anzi è la capacità di guardare al passato con gli occhi del presente che ci permette oggi di rivivere l’avvincente vita di Van Gogh su un grande schermo, grazie al connubio arte e tecnologia: quest’ultima, un’inevitabile realtà del nostro tempo, ma non per questo possiamo sempre descriverla come ‘male’ del nostro tempo, soprattutto se trova il modo di avvicinare così tante persone, come in questo caso, al mondo dell’arte, un mondo che oggi troppo spesso viene posto in secondo piano. Per maggiori informazioni, curiosità e retroscena dell’ormai famoso lungometraggio è possibile anche consultare il sito web a lui dedicato (http://lovingvincent.com/the-movie,3,pl.html), e scoprire di più anche sugli attori e sulla crew di esperti che ne ha permesso la realizzazione. Sitografia Link trailer: https://www.youtube.com/watch?v=v4-jigHrsYI Link immagini: http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2017/10/09/news/_loving_vincent_il_primo_film_interamente_dipinto_e_un_omaggio_a_van_gogh-177686189/ http://www.artspecialday.com/9art/2017/11/17/loving-vincent-van-gogh-grande-schermo/ http://www.lastampa.it/2017/10/28/tecnologia/news/loving-vincent-olio-su-tema-e-computer-grafica-per-raccontare-van-gogh-attraverso-i-suoi-quadri-NM6yMbvV1T48AVGZIbqEdP/pagina.html https://www.maspormas.com/cinetv/loving-vincent-pelicula-van-gogh/ http://www.indiewire.com/2017/08/loving-vincent-125-painters-first-hand-oil-painted-animation-1201867696/
La sua produzione risulta essere una mescolanza di stili, immagini e suoni che rimarcano la vita quotidiana ed è proprio per questa tendenza al vario che l’artista arriva a modificare anche le forme artistiche utilizzate introducendo sempre una nota ironica(1).
Grande momento della produzione di Guan Xiao è quindi la partecipazione alla 57° Biennale di Venezia nel 2017, intitolata “VIVA ARTE VIVA”, con l’opera chiamata “David”, collocata nel Padiglione delle Tradizioni. “VIVA ARTE VIVA”, curata da Christine Macel e organizzata dalla Biennale di Venezia, presieduta da Paolo Baratta, si è tenuta da sabato 15 maggio fino al 26 novembre del 2017 presso i Giardini e l’Arsenale. Obbiettivo della Biennale del 2017 era quello di celebrare l’esistenza dell’arte e degli artisti, una mostra, come dice la stessa Christine Macel, ispirata ad un nuovo Umanesimo che celebra la capacità dell’uomo, attraverso l’arte, di non essere dominato da quanto accade nel mondo e la ricerca, tutta contemporanea, delle individualità poiché grazie ad esse siamo in grado di poter disegnare il mondo di domani. La figura dell’artista diventa quindi cruciale poiché l’unica in grado di intuire la direzione da seguire per la costruzione di questo nuovo mondo. Ciò permette all’artista finalmente di riemergere dopo anni in cui era stato “sottomesso” dal sistema in cui operava. Altro obbiettivo è quindi quello di creare un movimento dell’io verso l’altro. “VIVA ARTE VIVA” (2), diventa quindi un’esclamazione, un’espressione, una la passione per l’arte e per la figura dell’artista. L’intento è stato quello di creare un’energia positiva per i giovani artisti, come la nostra Guan Xiao, ma vi era anche l’obiettivo di dare spazio ad artisti scomparsi prematuramente o comunque sconosciuti al grande pubblico. Inoltre, la Biennale avrebbe fatto emergere un sentimento diffuso tra gli artisti più giovani ossia la volontà di affrontare non soltanto elementi di arte contemporanea, ma piuttosto allargare gli orizzonti verso un passato remoto. C’è dunque, volontà nel creare un rapporto con il passato. Grande novità di quest’ultima Biennale è stata la richiesta, rivolta ad ognuno degli artisti, di inviare anche pubblicazioni e testi che hanno avuto particolare importanza nella loro formazione e nel loro sviluppo artistico. Inoltre, una serie di eventi paralleli hanno animato la manifestazione e il catalogo si divide in due volumi: il primo è dedicato all’Esposizione internazionale ed è stato curato dalla stessa Christine Macel, il secondo è dedicato alle Partecipazioni Nazionali, ai progetti speciali e agli eventi collaterali. Il progetto grafico dell’immagine del catalogo sono dello Studio de Valence di Parigi e la mostra si è dotata anche di un Hashtag ufficiale (#BiennaleArte2017). Quella della Biennale del 2017 è stata una scelta che implicava uno sguardo sul modo di considerare l’uomo nella sfera privata e in quella pubblica, non l’uomo dei media, ma l’uomo di fronte alla cosa pubblica ed è in questa riflessione che l’opera di Guan Xiao si pone alla perfezione. “DAVID” (3) è uno dei suoi più famosi Video Work, anche se risulta assente un riferimento a tale opera all’interno del suo profilo Instagram, dove posta quasi quotidianamente foto delle sue opere. Si tratta di un video costituito da un mix di filmati presi direttamente da internet a cui l’artista accosta brevi frasi (Questo è David/Ma è scomparso/Si! Lui è qui/NON POSSIAMO vederlo/non sappiamo perché guardiamo etc.), il tutto accompagnato da una canzone da lei prodotta che, molto probabilmente, richiama le sue origini orientali. In questo lavoro, ma in generale anche in altri lavori dove l’artista vuole riportare lo stesso insegnamento, l’opera d’arte è presentata come un dato materiale che deve essere a tutti i costi riprodotta in tutti i modi possibili. Non ci si riferisce soltanto alle migliaia di fotografie che ogni giorno vengono scattate dai turisti per documentare quell’evento senza comprenderlo a pieno, ma anche a tutta quella serie di riproduzioni del David per scopi commerciali (in questo caso illuminante è la parte del video che mostra questi oggetti commerciali che riproducono l’opera e in cui si afferma che il David si può bere, mangiare etc..). Viene denunciata, attraverso un video di circa 5 minuti la mancanza di comprensione, apprezzamento e rispetto dell’opera d’arte da parte delle persone che la visionano. Ciò che viene presentato è il dilemma contemporaneo dell’ignoranza dei più di fronte l’opera d’arte. L’artista vuole quindi portarci a compiere un passo per ricominciare a considerare l’arte come un nucleo unico e inimitabile, ammirando e imparando nuovamente a meravigliarsi. Uno degli aspetti più particolari della sua arte, visibile in maniera piuttosto chiara in “David” è l’ironia e il sarcasmo, sentimenti che in un certo senso vengono sostituiti, durante la visione dell’opera, da un sentimento di disagio. Trae tutta questa serie di immagini dal web e le innalza al livello di un’opera artistica ma, al tempo stesso, è come se l’immagine venisse addirittura ridicolizzata. Tra le recensioni, riguardo l’evento e in particolare l’opera di quest’artista, possiamo affermare che domina sicuramente un comune senso di apprezzamento. Ad esempio, viene affermato nel blog -“Arte senza Corpo”(4) - che Guan Xiao produce accostamenti che diventano seriali e riproponendoli all’occhio del fruitore in un circolo costante ed infinito, invitano a porre l’attenzione sul singolo elemento in un paradosso di sensazioni. Ciò che percepiamo è una coralità che diventa una voce e una messa a fuoco che illumina, ingrandisce e distorce mille altri volti. In altri casi ci si è chiesto se la Biennale fosse stata “realmente viva” (5) poiché sembrava che mancasse una certa energia che era stata prefigurata, ma il nome di Guan Xiao figura sempre tra gli artisti più apprezzati in particolare per l’originalità nell’aver reinterpretato il David fornendo una chiave critica e sociologica sul modo di fruire l’arte, sulle icone e sul turismo in una cornice quasi grottesca. Non manca la voce sui social delle persone che non hanno potuto visionare la mostra dal vivo (o di chi ha voluto guardare nuovamente il video) che in generale commenta positivamente l’opera, in particolare una di queste ha affermato che avrebbe potuto guardare il video per tutta la giornata. Presenti anche recensioni negative e in particolare vorrei soffermarmi su quella di Sandro Naglia. Sin dalle prime righe manifesta la volontà di discostarsi dalle lodi tributate all’esposizione poiché mancano degli “acuti” e in più l’esposizione principale è come se fosse rimasta “schiacciata” dal confronto con l’altissimo livello di diversi padiglioni nazionali. In particolare, si scaglia proprio contro il Padiglione delle Tradizioni in quanto gli artisti coinvolti non sono riusciti a trascendere il dato puramente etnico della loro ispirazione. Su Guan Xiao afferma che il suo tentativo di denunciare la superficialità con cui l’arte viene percepita non fa che sovrapporre kitsch a kitsch (6). Quindi, in più di qualche caso, possiamo constatare dalle varie opinioni sul web che la Biennale ha disatteso alcune delle aspettative create nella mente degli esperti, ma ancor più certo è che l’opera di Guan Xiao ha ricevuto un particolare apprezzamento. Sitografia: Li Bowen, “Guan Xiao. Commodification, commercialisation, cultural proliferation – her work covers it all. Just don’t call it post-internet”, in “Art review, Art Review Asia”, gennaio 2016 https://artreview.com/features/feature_ara_jan_16_guan_xiao/ Chiara Cottone, “L’ironia kitsch della denuncia: Guan Xiao e l’arte per accostamenti”, in “Arte senza corpo”, 6 novembre 2017; http://artecracy.eu/lironia-kitsch-della-denuncia-guan-xiao-larte-accostamenti/ Anonimo, “L’arte della Biennale 2017 è davvero viva?”, in “Lezioni di arte contemporanea”, 15 settembre 2017 https://lezionidartecontemporanea.wordpress.com/2017/09/15/larte-della-biennale-2017-e-davvero-viva/ Sandro Naglia, “Biennale di Venezia 2017 – Un Bilancio #1: Viva Arte Viva, in “Collezione da Tiffany – Come collezionare arte contemporanea e vivere felici”, 15 agosto 2017 http://www.collezionedatiffany.com/biennale-venezia-2017-un-bilancio-1-viva-arte-viva/ 1 Riferimenti alla produzione di Guan Xiao: Li Bowen, “Guan Xiao. Commodification, commercialisation, cultural proliferation – her work covers it all. Just don’t call it post-internet”, in “Art review, Art Review Asia”, gennaio 2016 https://artreview.com/features/feature_ara_jan_16_guan_xiao/ 2 Sito Biennale di Venezia: http://www.labiennale.org/it/arte/2017/57-esposizione-internazionale-d%E2%80%99arte 3 Link Video “David”: https://www.youtube.com/watch?v=c3Y7UpGPZXg 4 Chiara Cottone, “L’ironia del kitsch della denuncia: Guan Xiao e l’arte per accostamenti”, in “Arte senza corpo”, 6 novembre 2017 http://artecracy.eu/lironia-kitsch-della-denuncia-guan-xiao-larte-accostamenti/ 5 Anonimo, “L’arte della Biennale 2017 è davvero viva?”, in “Lezioni di arte contemporanea”, 15 settembre 2017 https://lezionidartecontemporanea.wordpress.com/2017/09/15/larte-della-biennale-2017-e-davvero-viva/ 6 Sandro Naglia, “Biennale di Venezia 2017 – Un bilancio #1: Viva Arte Viva, in “Collezione da Tiffany – Come collezionare arte contemporanea e vivere felici”, 15 agosto 2017. http://www.collezionedatiffany.com/biennale-venezia-2017-un-bilancio-1-viva-arte-viva/ |
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