di Federica Bertini Ho voluto confrontarmi – seppure virtualmente – con Giuliano Gaia, che insieme a Stefania Boiano è il co-fondatore di InvisibleStudio, per capire in che modo è cambiato il suo lavoro durante e dopo il lockdown. Il nome di Giuliano Gaia l’ho incontrato quando il Museo Poldi Pezzoli di Milano si è aggiudicato, nel 2018, il secondo premio per l’Innovazione digitale nei beni culturali del Politecnico con il progetto “Chatbot game per le Case Museo di Milano”[1]. Per intenderci, si tratta di «sistemi automatici che permettono di chattare con personaggi virtuali come se fossero persone reali» attraverso i quali è possibile «scoprire dettagli inediti e affascinanti delle case-museo milanesi e del quartiere che li circonda»[2]. Giuliano Gaia realizza progetti digitali dal 1998, molti di essi sono pensati per sperimentare vie alternative per il miglioramento della fruizione dei beni culturali da parte di un pubblico sempre più ampio. Il suo percorso è iniziato con il Museo della Scienza di Milano e il San Francisco Museum of Modern Art e poi, con InvisibleStudio, Giuliano ha poi continuato i suoi progetti con numerosi altri musei italiani e internazionali. Assieme alla sua socia ha accettando la sfida di rinnovare il museo tenendo conto delle esigenze espresse dalla società moderna senza però rinunciare ai valori culturali ad esso connessi. Si potrebbe pensare che InvisibleStudio punti quasi totalmente su quella che oggi si afferma come ‘innovazione digitale’, eppure durante il seminario da lui tenuto come ospite del master in “Nuove tecnologie per la comunicazione, il cultural management e la didattica della storia dell’arte” dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Giuliano ha voluto smascherare lo stereotipo ‘innovazione uguale digitale’ perché – come egli stesso ci ha tenuto a sottolineare – si può innovare anche fuori dal digitale e non è detto che tutto debba essere digitale per essere innovativo. Per essere più chiari, si può parlare di innovazione anche ripesando alle strategie o ai processi già utilizzati in passato o derivati da altri settori specifici oltre a quello della cultura. Così, anche se ha organizzato diversi workshop sullo strumento del Design Thinking, nato nell’ambito aziendale e rielaborato per essere applicato al museo (sperimentandolo con successo in diversi musei piccoli e grandi, dalle Case Museo di Milano al Museo Egizio di Torino e all’Imperial War Museum di Londra), Giuliano ci ha tenuto a raccontare in che modo abbia fortemente sostenuto anche la sperimentazione delle visite teatralizzate per i musei di Vercelli utilizzando in maniera innovativa una un format tradizionale come quello del teatro. In riferimento alle soluzioni adottate da InvisibleStudio per il miglioramento dell’esperienza fruitiva dei musei (che comprende anche e non solo l’impiego di tecnologie) prima e durante il lockdown, Giuliano ha raccontato delle visite virtuali da lui realizzate per il Museo Poldi Pezzoli ottenute utilizzando gli strumenti di Google Art&Culture. Si è trattato di una delle prime sperimentazioni di visite virtuali nell’ambito museale italiano nel periodo di chiusura che ha permesso ad alcuni studenti di ‘visitare’ questi spazi accompagnati da una ‘guida vera in tempo reale’; un progetto – come ci tiene a sottolineare Giuliano – che deriva dall’unione di «spinte umane con il prodotto tecnologico», senza dimenticare che la cosa più importante è «avere voglia di trasmettere contenuti culturali con passione» e – aggiungerei – con competenza e professionalità. Infatti, nonostante l’inevitabile perdita di «contesto rispetto a una visita guidata reale», attraverso il progetto di Giuliano è possibile garantire «la presenza di una guida umana, la compresenza visibile di altri visitatori e la possibilità di porre domande anche a voce», ma anche «mostrare dettagli normalmente quasi invisibili a occhio nudo, offrendo quindi un valore aggiunto rispetto alla visita reale»[3]. L’esperimento non si è esaurito con la fine del lockdown ma continua tutt’ora con una serie di visite guidate virtuali gratuite curate dal Gruppo Giovani del Museo su prenotazione online. È chiaro per Giuliano, avendo anche sperimentato in questo periodo workshop virtuali di scrittura creativa al Museo della Bora e al Museo Dolom.it e una serie di gite virtuali nei musei di Londra per la scuola media Leonardo Da Vinci di Bergamo, che per elaborare soluzioni efficaci, capaci di dare un valore aggiunto al museo, ogni progetto deve essere frutto di un lavoro già avviato che si avvale di strategie che mirano ad avere dei risultati concreti e soprattutto duraturi. Quello che Giuliano Gaia e Stefania Boiano hanno sottolineato in un loro recente articolo è che il museo possiede oggi due possibilità: «o tornare lentamente al “Business as usual”, lasciandosi alle spalle questo periodo di visite virtuali come un brutto ricordo, o tentare di capire se alcuni aspetti delle visite virtuali possono essere salvati, magari andando a integrare l’offerta di visite “live” tradizionali». Le loro esperienze hanno potuto intanto confermare è che «c’è un futuro per le visite virtuali, sia come anteprima della visita reale che per tutti quelli che comunque non possono visitare fisicamente il museo»[4]. Intervista a Giuliano Gaia
di Federica Bertini Giuliano come presenteresti il tuo lavoro? Il nostro studio si occupa di innovazione culturale, anzi vorrei parlare addirittura di “sperimentazione culturale”, nel senso che da quasi 25 anni proviamo a sperimentare continuamente nuove soluzioni per rendere la cultura sempre più accessibile a tutti. A cosa ti riferisci quando parli di ‘sperimentazione culturale’? Nel nostro caso si può parlare di innovazione culturale e distinguerla in digitale e di processo. Noi siamo nati col digitale, nel senso che io e la mia socia siamo stati tra i primissimi in Italia a occuparci del rapporto tra Internet e i musei, lavorando io al Museo della Scienza di Milano e Stefania alla Città della Scienza di Napoli, abbiamo creato le prime sperimentazioni digitali in entrambe le realtà. Il digitale ha quindi rappresentato la prima frontiera di sperimentazione per noi, e ancora oggi è un’area ancora largamente inesplorata che offre quindi ampi margini di approfondimento. Successivamente abbiamo capito che l’innovazione abbracciava un campo più ampio rispetto al solo digitale e che necessariamente doveva coinvolgere sia le strategie che i processi di lavoro. Per questo ad esempio siamo stati i primi in Italia ad applicare il Design Thinking al settore museale, con l’esperienza di training realizzata al Museo Egizio di Torino. Qui abbiamo formato l’intero staff al Design Thinking come metodo di lavoro innovativo e radicalmente collaborativo, grazie all’apertura dimostrata dalla dirigenza dello stesso Museo. Infine, l’attività didattica è assolutamente necessaria se si vuole avere un impatto duraturo sul settore. Oggi molti giovani si affacciano al settore culturale con grande passione ma con scarse conoscenze tecniche e con un sostanziale disorientamento. Per questo da anni insegniamo in corsi universitari e post-universitari (IULM, Politecnico di Torino, Sole 24 Ore Business School, RCS Academy solo per citarne alcuni) per cercare di colmare questa lacuna, esplorando non soltanto nuovi contenuti ma anche nuove modalità didattiche, fedeli alla nostra passione per la sperimentazione continua. Come è cambiata il tuo lavoro con la chiusura dei musei e il blocco del turismo? Una delle nostre attività riguarda il turismo culturale e l’organizzazione di attività turistiche di vario tipo legate alle risorse culturali milanesi. L’azzeramento del turismo conseguente alla crisi del Covid-19 ci ha portato a sperimentare immediatamente forme di visita virtuale, che si sono rivelate promettenti. Credo che la cosa più importante sia avere voglia di trasmettere contenuti culturali con passione, e questo si riflette in qualunque strumento venga utilizzato. Parliamo del progetto al museo Poldi Pezzoli. Come è nato e come si è evoluto nella fase 1? Le visite virtuali che abbiamo realizzato con il Museo Poldi Pezzoli in questi due mesi in verità sono state la conseguenza di un rapporto di intensa collaborazione che abbiamo da anni con il museo. Una collaborazione nata nel 2016 con un altro progetto molto innovativo, la realizzazione di un “chatbot game” che sfruttasse le caratteristiche dei chatbot e della gamification per coinvolgere un pubblico notoriamente molto difficile per i musei, gli adolescenti, in un gioco che li potesse spingere all’esplorazione delle quattro case museo di Milano. Come nel caso delle visite virtuali, noi non crediamo in una tecnologia in sé, ma solo nell’unione di spinte umane con un prodotto tecnologico. Nel caso delle visite virtuali, l’elemento umano è la guida, e la tecnologia è Zoom+Google Arts & Culture. Nel caso del chatbot game, l’elemento umano è la naturale spinta dell’essere umano a giocare e collaborare, e il chatbot è solo uno strumento per stimolare questa tendenza innata. Il progetto ha riscosso molto interesse all’estero, essendo stato presentato a Londra, Berlino e Vancouver; inoltre è stato oggetto di studio da parte del King’s College di Londra come modalità innovativa di esperienza didattica. Nel corso del prossimo anno verrà tradotto in inglese, per cui ne esploreremo anche le potenzialità turistiche. Cosa ti senti di dover dire riguardo a questo tipo di collaborazioni, quelle tra Musei e società che operano nel settore della cultura come la tua? In generale io credo che ogni museo dovrebbe aprirsi il più possibile a collaborazioni esterne, offrendosi come campo di sperimentazione. Io credo in un museo-API, per rubare un termine alla tecnologia digitale, in altre parole in un museo che mette i propri contenuti a disposizione di chiunque voglia utilizzarli, in modo da favorirne al massimo la diffusione nella società. Il Rejiksmuseum di Amsterdam è l’esempio più illustre di questo approccio, avendo creato Rijksstudio come piattaforma per scaricare ad alta qualità tutte le loro immagini, in maniera completamente gratuita e utilizzabili in piena libertà. «Se devono stampare le nostre immagini sulla carta igienica, che almeno sia una stampa ad alta qualità», è stata la loro provocatoria affermazione, ed è una posizione che mi trova totalmente d’accordo. Come vedi il futuro di queste sperimentazioni nate durante l’emergenza? In questo senso spero che tutti gli strumenti virtuali testati in questi giorni drammatici non vengano abbandonati al termine della crisi per tornare semplicemente al ‘Business as usual’. Pur ritenendo indispensabile la didattica museale in presenza, credo che la didattica online possa integrarla con grande efficacia, permettendo ad esempio di proporre contenuti di nicchia che non potrebbero essere economicamente sostenibili in presenza, oppure per tutti quei visitatori che per i motivi più vari non hanno possibilità di visitare il museo. [1] https://nova.ilsole24ore.com/esperienze/al-museo-col-chatbot/?refresh_ce=1 [2] https://casemuseo.it/chat-game-nelle-case-museo/ [3]https://www.artribune.com/progettazione/new-media/2020/04/musei-visite-virtuali-coronavirus/ Articolo pubblicato su Artribune il 9 aprile 2020 da Giuliano Gaia e Stefania Boiano. [4] https://www.musei-it.com/cosa-restera-di-queste-visite-virtuali/ Articolo pubblicato su Musei.it il 3 giugno 2020 da Giuliano Gaia e Stefania Boiano.
0 Commenti
di Carmelo Occhipinti Gli scienziati, chimici, fisici, informatici, ingegneri, biologi stanno mettendo a disposizione degli umanisti strumenti di indagine tecnologica sempre più avanzati che, nei confronti del settore dei beni culturali, spalancano prospettive straordinariamente vaste e seducenti, talvolta davvero stupefacenti!
Perciò sempre più necessarie diventano le occasioni di incontro e di dialogo, come quella che all’università di Roma “Tor Vergata” si è svolta, il 29 maggio 2020, sul tema de «Le Scienze e il Museo: Archeologia, Ingegneria, Chimica in un approccio interdisciplinare per fruire i Beni Culturali nello spazio Museo che li conserva», a cura di Federica Bertini (Dipartimento di Studi Letterari, filosofici e di storia dell’arte) e Federica Valentini (Dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche), nell’ambito del master post-universitario da me coordinato in «Nuove tecnologie per la comunicazione, il cultural management e la didattica della storia dell’arte». Simili preziosissime occasioni di confronto serviranno a far capire a tutti noi – scienziati e umanisti – per quale via possa essere costruito il mondo di domani. Ma anche per interrogarci sul ruolo che dovrà avere l’umanista nella società del futuro, che sarà sempre di più dominata dall’innovazione tecnologica, dagli algoritmi, dall’intelligenza artificiale, dal marketing: a cosa serviranno gli archeologi e gli storici dell’arte quando a occuparsi di beni culturali, di reperti antichi, di monumenti artistici e di testi letterari saranno sempre di più gli scienziati, chimici, fisici, informatici, ingegneri e biologi, e quando a scrivere la storia dell’umanità saranno i genetisti piuttosto che i letterati? Ebbene, occasioni come quella del 29 maggio scorso aiuteranno gli umanisti a porsi alcuni nuovi interrogativi imparando ad ascoltare gli scienziati – certo! –, ma anche facendo loro sentire la propria voce. Rivolgendosi agli scienziati, gli umanisti impareranno a dar loro una direzione, affinché tanti progetti tecnologici innovativi, così stupefacenti e ammirevoli, vengano davvero messi al servizio della ricerca umanistica anziché ‘disumanizzarsi’, diciamo così, fino a perdere di vista quel valore irrinunciabile su cui dovrebbe trovare fondamento qualsivoglia progetto di società del futuro: il valore propriamente umanistico – appunto – della centralità dell’uomo rispetto al moderno panorama globalizzato e multimediale che, purtroppo, appare invece sempre più segnato dalla emarginazione dell’individuo, dove persino il principio di autodeterminazione individuale viene mortificato dalle logiche preminenti dell’innovazione dei sistemi produttivi e di mercato. Cerco di spiegarmi. Lo storico dell’arte avrà il dovere di avvertire gli scienziati che l’abitudine alla fruizione digitale del patrimonio artistico proveniente dal passato sta producendo una mostruosa perdita di senso storico specialmente tra i più giovani, compromettendone gravemente le facoltà sensoriali, inibendo le capacità di percezione ‘aptica’, irrigidendo le facoltà di giudizio, rendendo tutti noi, alla fine, sempre più indisponibili verso modi di vedere e linguaggi diversi, ovvero verso punti di vista storicamente condizionati e distanti da noi. Una così grande fiducia, da parte di tutti noi, nella comunicazione digitale rischia altresì di compromettere la nostra capacità di pensare e – paradossalmente! – di comunicare, cioè di confrontarci tra di noi, di servirci delle parole stesse di cui la nostra lingua è immensamente ricca per esprimerci, anche quando proviamo a riferirci alle stesse opere d’arte – quelle vere! – non appena le vediamo, per parlarne, per dire cosa esse ci comunicano… Una tale fiducia negli strumenti di indagine innovativa del patrimonio artistico rischia dunque di inibire la nostra capacità di rapportarci – direttamente e ‘immediatamente’ – ai capolavori dell’arte e della letteratura provenienti dal nostro passato, rispetto ai quali i giovani di oggi si sentono sempre più smarriti e disorientati, ove non vengano loro stessi supportati dai dispositivi tecnologici della memoria virtuale, oppure dagli strumenti della visione artificiale che permettano loro di ‘vedere’, appunto, al di là di quello che i nostri occhi – limitatamente umani – sono capaci di vedere. Finiamo così per convincerci che i nostri nudi e poveri occhi non vedano più niente, che non sappiano giudicare alcunché senza l’aiuto delle più sofisticate apparecchiature tecnologiche, dato che grazie ad esse riusciamo a vedere tutto e meglio. In tal senso la fiducia così sfrenata che negli ultimi anni abbiamo nutrito nei confronti del progresso e dell’innovazione tecnologica ha prodotto un terrificante degrado umano, culturale, sociale. Ebbene lo storico dell’arte avrà il dovere di ricordare a tutti, non solo agli scienziati, che per ‘vedere’ meglio le opere d’arte, per valorizzare davvero il patrimonio storico-artistico in seno alla moderna società multimediale e globalizzata, dovremmo tutti noi rieducarci alla visione: ma rieducarci alla visione non significa affidarci ancora di più ai supporti tecnologici, a questi sofisticatissimi strumenti che permettono di potenziare la nostra vista facendoci scrutare, in direzione di ciò che è immensamente piccolo, al di là della superficie visibile, dentro la infinita profondità della materia. Significa, piuttosto, imparare a chiudere i nostri occhi, per poter vedere meglio, dentro di noi, il mondo che ci circonda, il nostro stesso passato che vive nel presente, senza il quale noi non ci saremmo, né saremmo come siamo: e, dunque, per poter vedere le opere d’arte con tutto noi stessi. Rieducarci alla visione significa imparare a recuperare il valore del nostro sguardo interiore, limitato e storicamente condizionato, perché solo dopo avere ritrovato noi stessi impareremo a capire gli altri, a comprendere i linguaggi e i modi di vedere più diversi nonché, alla fine, a dare il giusto valore anche ai potentissimi strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione. Solo così non rischieremo di diventare noi stessi strumento della tecnologia, sacrificando la nostra stessa 'umanità' alle logiche produttive che sono profondamente disumane, selvaggiamente antiumanistiche! Rieducarci alla visione significa renderci conto che il nostro sguardo è e sarà sempre più potente di quello della macchina, proprio perché più ‘limitato’. E che la nostra fragilità ci rende di gran lunga più forti della macchina, perché nella nostra limitatezza appunto, nella nostra vulnerabilità, nella nostra inclinazione all’errore noi siamo infiniti. Rieducarci alla visione significa riscoprire proprio la nostra infinita, immensa profondità di esseri umani. Significa ritrovare la nostra dignità. Significa recuperare una nostra memoria storica, minacciata da questa sconfinata fiducia nel futuro e nella rivoluzione tecnologica che, azzerando il passato, ci conduce nientemeno che a ritenere l’uomo stesso, ormai, come obsoleto, superato, antico. Significa recuperare quello sguardo che sulle opere d’arte, lungo le epoche del passato, hanno saputo rivolgere gli uomini che ci hanno preceduti, capaci talvolta di vedere molto meglio di noi, dato che che i sofisticatissimi strumenti tecnologici di cui disponiamo impoveriscono paradossalmente la nostra capacità di ‘vedere’, mortificando il nostro stesso senso di libertà. Imparare a guardare le opere d’arte con gli occhi, per esempio, di Leonardo da Vinci, di Giorgio Vasari, di Johann Joachim Winckelmann significa capire quanto ci siamo oggi impoveriti. Quanto la nostra umanità si sia ridotta, grazie a questa meravigliosa rivoluzione digitale! Ma attenzione: a proposito dei beni culturali e del patrimonio artistico, non ci sarà progetto tecnologico che possa davvero definirsi come ‘innovativo’, ove non si trovino attivamente coinvolti degli umanisti. Bisogna, insomma, che gli umanisti tornino a reggere il timone per evitare il baratro inesorabile nel quale la rivoluzione tecnologica sta facendoci precipitare. |
Categorie
Tutti
Archivi
Marzo 2024
|