Riflessioni sui neologismi nella critica artistica: il ruolo delle tecnologie e dei nuovi media.30/1/2024 a cura di Sabrina PasqualeIl 29 e 30 novembre 2023 si è svolto il Convegno “Neologismi nella critica artistica contemporanea. Nuovi media, nuove tecnologie, nuove prospettive metodologiche”, ormai giunto alla seconda edizione, curato da Federica Bertini (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”), Emanuela Garrone (l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione) e Rosalinda Inglisa (Università Telematica San Raffaele Roma). Il Convegno fa parte del progetto “Neologismi nell’arte contemporanea” avviato nell’ambito di un accordo ufficiale stipulato tra l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD). I lavori della prima giornata sono stati presentati da Carlo Birrozzi, Direttore dell’ICCD, e da Carmelo Occhipinti, Responsabile del corso di studi magistrali in Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e del master MANT “Nuove tecnologie per la comunicazione, il cultural management e la didattica della storia dell’arte: per una fruizione immersiva e multisensoriale dei Beni Culturali”. Durante il suo intervento introduttivo, Carlo Birrozzi ha sottolineato l’importanza di questa collaborazione per condividere i lavori di ricerca che i due enti stanno conducendo sui lessici della storia dell’arte. L’ICCD è stato infatti impegnato, negli ultimi tre anni, in alcune ricerche riguardanti le modalità descrittive del patrimonio artistico al fine di mettere in evidenza il rapporto che si crea tra le opere e il contesto in cui esse nascono e vengono fruite. Inoltre, dal 2017, è in atto una collaborazione con l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR per la creazione di specifiche ontologie sui beni culturali, soprattutto in riferimento al lessico dell’architettura. Il Direttore ha concluso l’intervento sottolineando l’importanza della condivisione di una metodologia sia nell’ambito della catalogazione che nella formazione di vocabolari controllati. Carmelo Occhipinti, che da anni è impegnato con il suo gruppo di lavoro nella digitalizzazione di trattati storiografici italiani, relativi agli anni compresi tra il Cinquecento e l’Ottocento, dedicando una specifica collana monografica della rivista di Storia dell’arte Horti Hesperidum, chiamata “Lessico artistico”, ha incentrato la sua analisi sull’elaborazione di un lessico storico della critica d’arte italiana, dall’età rinascimentale ai nostri giorni. Lo studioso ha citato il significativo lavoro del linguista Gianfranco Folena che, già nel 1976 ne La scrittura di Tiziano e la terminologia pittorica Rinascimentale aveva sottolineato la necessità di un lavoro sulla terminologia delle arti figurative e dell’architettura. Questo argomento è stato anche affrontato dalla storica dell’arte e docente presso la Scuola Normale Superiore di Pisa Paola Barocchi, che nel 1983 con l’intervento “La Crusca, nella tradizione letteraria linguistica italiana” pronunciato durante il Convegno dell’Accademia “Commercio internazionale” organizzato per il quarto centenario di questa Istituzione, ha sottolineato l’importanza del confronto tra le fonti letterarie e il linguaggio tecnico degli artisti e delle botteghe. Occhipinti ha concluso invitando a riflettere sull’etimologia ed evoluzione delle parole come una storia della disciplina, una storia dei modi di vedere che cambiano senza ridurre questo lavoro alla creazione di un compendio, un prontuario di termini, come si fa per i linguaggi tecnici, della medicina o dell’ingegneria. Nel Convegno, prima degli interventi dei relatori, le curatrici, Federica Bertini, Emanuela Garrone e Rosalinda Inglisa, hanno illustrato le tappe che hanno permesso la realizzazione del progetto. Federica Bertini, nel 2019, ha avviato un lavoro di ricerca sui neologismi relativi all’arte contemporanea, con particolare attenzione ai nuovi media e alle nuove tecnologie, questi ultimi impiegati nella creazione e nello sviluppo di nuovi modelli espositivi, di fruizione e di comunicazione. Parte di questo lavoro è stato approfondito nel volume “Heritage 5.0. Tramandare l’eredità culturale, una sfida per il XXI secolo”, pubblicato nel 2023 e curato da Federica Bertini e Valentino Catricalà, studioso dei rapporti fra arte, cinema e media, curatore e critico d’arte contemporanea. In questo volume è stato pubblicato un primo glossario, nel quale i vocaboli sono stati analizzati partendo dal significato che essi assumono relativamente agli ambiti della fruizione e a quelli della produzione artistica, citando anche casi studio esemplari. Significativo impulso per questa ricerca è stato dato nel novembre 2022, quando è stata organizzata la prima edizione del Convegno internazionale dal titolo “Neologismi nella critica artistica contemporanea Nuovi media, nuove tecnologie, nuove prospettive metodologiche”. Inoltre, è rilevante considerare che lo studio sul lessico è strettamente collegato al lavoro di elaborazione di una scheda sperimentale di catalogazione dei linguaggi artistici legati alla Street art e all’Arte urbana, ideata da Simonetta Baroni, testata per la prima volta nel 2019 nell’ambito del progetto universitario “Street Art in provincia”, ideato da Federica Bertini con la collaborazione di Francesca Colonnelli.
Lo studio dei neologismi e la schedatura di opere d’arte contemporanea sono diventati i temi di un più ampio progetto condiviso con l’ICCD, in cui grazie al lavoro svolto da Maria Letizia Mancinelli, i diversi modelli di catalogazione utilizzati nella prima scheda sperimentale (OAC, BDM e la schedatura Critic Art Data, ideata da Eugenio Battisti nel 1989) sono stati rivisti in base alle nuove norme e modelli di schedatura, a cui si aggiungono anche gli importanti contributi di Federica Bertini e Emanuela Garrone in relazione all’aggiornamento e all’ampliamento del lemmario dei linguaggi artistici contemporanei con una particolare attenzione ai termini legati agli aspetti digitali e tecnologici dell’arte. Nel corso di queste due giornate di studio si sono alternati studiosi ed esperti provenienti da diversi atenei italiani ed enti di ricerca che hanno analizzato una serie di termini: Metamuseo del costume cinematografico (Elisabetta Bruscolini), Itinerario digitale (Olga Concetta Patroni), Pittura provvisoria ( Alessandro Ferraro), Op Art ( Marta Previti), Data sculpture/Data painting (Claudia Bottini), Tecnosocialità ( Chiara Canali), Aptico (Valentina Bartalesi), Phygital ( Davide Silvioli), Storage (Williams Troiano), Storytelling (Barbara D’Ambrosio), Comunicatore museale (Lidia Abenavoli) , Site- specific /time- specific ( Costanza Meli). L’ultima sessione del Convegno è stata dedicata alla presentazione di alcuni studi condotti dagli studenti del corso di “Nuove tecnologie per la fruizione delle opere d’arte e per l’accessibilità del Patrimonio Culturale” (tenuto da Federica Bertini e Simonetta Baroni) del Master MANT del Dipartimento di Studi letterari, filosofici e di storia dell’arte dell’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”, coordinato da Carmelo Occhipinti. Conclusioni È importante sottolineare che durante il Convegno è emersa un’interessante riflessione sull’esigenza di conoscere il lessico dell’arte creando occasioni di confronto diretto con gli artisti. Si tratta di un contatto necessario per rispondere alla complessità dei linguaggi artistici contemporanei strettamente legata al rapido sviluppo e utilizzo delle nuove tecnologie e delle innovazioni digitali. Per completare questa operazione Simonetta Baroni e Federica Bertini hanno proposto una serie di incontri che precederanno la prossima edizione del Convegno “Neologismi nella critica artistica contemporanea. Nuovi media, nuove tecnologie, nuove prospettive metodologiche”, previsto per il mese di novembre 2024, e che coinvolgeranno artisti, curatori e storici dell’arte. Gli incontri saranno divisi in quattro aree tematiche: 1- Arte, media e tecnologia; 2- Arte, territorio e ambiente; 3- Arte e sensorialità; 4- Arte e socialità. Si tratta di una prima classificazione utile al momento per iniziare un’indagine su specifici settori in relazione ai temi dell’arte contemporanea, della musealizzazione, della curatela, dell’allestimento, dell’illuminazione, della fruizione e della comunicazione. Questa operazione diventa pertanto centrale nella conoscenza e uso di nuovi termini che andranno ad arricchire e ampliare il lemmario.
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di Davide Silvioli Avvalorando la tesi secondo cui «la pratica curatoriale contemporanea, soprattutto quando opere provviste di una radice tecnologica significativa sono il suo epicentro, sembra essere in bilico fra il tentativo di inserire tali lavori nella fenomenologia della storia dell’arte e quello di trovare per gli stessi, vie d’espressione efficaci che possono però finire per escluderli ancora di più dalle modalità canoniche di esposizione e di documentazione»[1], questo studio mira a registrare le ragioni a fondamento del verificarsi crescente di un’attitudine distintiva dell’attualità, nel merito del campo disciplinare della curatela d’arte contemporanea. Si fa riferimento al dato che vede la pratica curatoriale odierna chiamata a interfacciarsi, con una ricorrenza sempre maggiore, con ricerche artistiche che qualificano la rete internet quale elemento costitutivo; sia che si tratti di opere totalmente informatizzate, dunque concepite e realizzate per essere fruite – a prescindere dagli strumenti utilizzati per farlo – esclusivamente nel web, che di lavori dalla formazione ibrida, perciò in grado di riunire nella propria articolazione tanto la dimensione fisica quanto quella online. In questo confronto, si assiste, non affatto di rado, all’avvalersi da parte dell’attività curatoriale di espedienti tecnologici, impugnati poiché ritenuti indispensabili per restituire nel modo più attinente possibile la natura estetica delle opere incluse in un progetto espositivo della fattispecie. A partire da tale constatazione, suffragando la convinzione secondo cui «la curatela non può essere dissociata dai cambiamenti sociali e tecnologici della civiltà del network»[2] e del proprio presente storico, la prosa ragiona su questa specifica flessione dell’andamento coevo della curatela d’arte contemporanea, al fine di rilevare l’entità della sua relazione con la categoria artistica identificata dalla nozione di “Internet-based”, dalla prospettiva dell’uso della tecnologia. Così strutturata nell’impianto concettuale, la trattazione si sofferma sull’osservazione delle motivazioni e delle modalità tramite cui la curatela d’arte contemporanea stia ricorrendo alla tecnologia, nella configurazione di progetti di mostre fisiche con opere internet-based. A tale proposito, poggiando sulla convinzione che «non intercorra incompatibilità fra la curatela e le tecnologie informatiche»(3), si argomenta che l’intenzione di impostare il focus dello scritto su una fra le nuove frontiere della curatela, la problematica “Internet-based”, è protesa a scrutare alcune soluzioni che l’esercizio curatoriale ha elaborato rispetto a come trattare realizzazioni di tale tipologia, fra le più avanguardistiche della contemporaneità, nonché già peculiare del presente storico-artistico. Un’accentuazione speculativa del genere, secondo un modello solitamente molto meno percorso, trasferisce il punto di vista dell’analisi dell’uso della tecnologia dalla sfera della ricerca artistica a quella della curatela, sulla base di come la stessa stia attraversando e risolvendo la questione “Internet-based”. Questo schema coincide, collateralmente, pure con il proponimento di monitorare l’aumento delle soluzioni che la professione del curatore, in sincronia con l’evoluzione di altri settori scientifici, è in potere di conseguire. Ciò termina nell’attribuire al testo un margine di novità, quindi anche d’incertezza o d’incompletezza, da dover soppesare. Quest’ultimo aspetto, sebbene possa sembrare conflittuale, rispecchia la difficoltà, endemica della critica d’arte contemporanea, implicita nel tentativo di mettere a fuoco i fenomeni culturali in assenza della dovuta distanza cronologica per farlo in maniera completamente nitida. Sul significato di Internet-based Difatti, l’espressione “Internet-based” si ritrova spesso associata indiscriminatamente e in modo indebito alle definizioni di “Net Art”, “Digital Art”, “Browser-based Art”, “Software Art”, “Internet Art”. Nei casi più generici, essa è utilizzata in sostituzione di queste denominazioni, come se fra tali accezioni non sussistessero livelli di differenza decisivi oppure come se le stesse fossero deliberatamente intercambiabili. Se, da un lato, il riscontro della vaghezza di tale condizione critica decreta la disomogeneità con cui la teoria dell’arte si è occupata del termine in esame, ciò, dall’altro, è dimostrazione della proprietà più evidente di questa nozione; ovvero la trasversalità. Nondimeno, persiste il problema che l’appellativo “internet-based” viene simultaneamente adoperato per una pluralità di ambiti e di esiti rispettivi della ricerca artistica, talvolta anche molto eterogenei, al punto di causare un disorientamento interno alla disciplina stessa. Allora, per circoscrivere il raggio di pertinenza del suo significato, risulta proficuo far appello alla natura del suo etimo, che va a indicare solamente la qualità costitutiva rivestita dalla rete internet nella fisica, quindi nell’estetica, di un’opera d’arte. Quanto ora desunto descrive null’altro che il vincolo di necessità, racchiuso nell’aggettivo “based” (da interpretarsi come “fondato”), che prevede il collegamento alla rete internet tra le componenti essenziali di un dato lavoro. Pertanto, dal momento che, oltre al ruolo irrinunciabile ricoperto dalla connessione web, nel termine non vi è alcun tipo di allusione riconducibile a medium, a tecniche, a procedimenti o a finalità, ogni qualvolta esso viene assimilato a discendenze di categorie che, invece, comportano prescrizioni di tal sorta, lo stesso diviene materia di un accostamento improprio. Al fine di marcarne il margine d’autonomia da altre nomenclature, si veda come un lavoro internet-based può non coincidere necessariamente con un’opera d’arte digitale, non corrispondere sempre a un’operazione artistica svolta internamente alle funzioni di un computer o a quelle della stessa rete internet, non deve per forza essere vincolato alle prestazioni di un software, di un browser o neppure di un algoritmo. A ogni modo, si sottolinea che questa autosufficienza non ne rinnega a priori una possibile appartenenza, a ragione, alle terminologie già citate, anche a più di esse al contempo. Tale statuto polimorfo è un derivato della mutualità che contrassegna queste convenzioni critiche, che, a loro volta, riflettono la poliedricità della tecnologia che le determina. Un ordine di contenuti così prospettato, per non risultare irrelato a quanto la curatela stia effettivamente conseguendo in termini di proposte espositive, induce a conferire non meno rilievo ai precedenti offerti dalla praxis, intesa come pensiero critico tradotto in azione, registrando l’assunzione di mezzi innovativi e la messa a punto di soluzioni inedite. Con la consapevolezza che «qualsiasi spazio entro cui si compie un’operazione curatoriale diviene essenzialmente uno spazio virtuale, perché la ridefinizione di significato di un ambiente che l’attività curatoriale termina nel restituire non è già incorporata nella realtà materiale del luogo»[4], l’investigazione è andata a supporre, cercando di renderne visibili le ragioni fondanti, un insieme sintetico e volutamente eterogeneo di trascorsi recenti, costituito da operazioni curatoriali che hanno trattato interventi dal carattere ibrido, dove connessione alla rete internet e parzialità fisiche si integrano reciprocamente, tanto nell’opera d’arte quanto nell’organicità del progetto. Su questa linea, si evince che l'impiego della tecnologia, relativamente alla curatela, risulta idoneo solo se è in potere di coniugarsi, con coerenza, al pensiero critico, all’allestimento nello spazio, ai modi di fruizione delle opere, fino a suggerire una «corrispondenza fra il rapporto dell’osservatore con le interfacce web e lo spazio fisico, cercando di stabilire coesione fra modi diversi di espressione, di fruizione e di esposizione»[5]. Pertanto, è costruttivo che pratica curatoriale e tecnologia siano correlate da un principio di complementarità, di interoperabilità, tale da consentire sia di esprimere che di esperire una condizione estetica che i soli apparecchi tecnologici o la curatela più ordinaria, singolarmente, non riuscirebbero a restituire. Laddove, per converso, la tecnologia non viene risolta in tal senso appare aliena al contesto a cui essa, al contrario, dovrebbe dare voce, finendo nell’avvertirsi come sterile, superflua, fuorviante. Allo stato dei fatti, si può dare per assodato che «le tecnologie digitali e i nuovi media influenzano e continueranno a modificare radicalmente lo scenario espositivo. Questa tendenza induce la curatela a problematizzare e a sfidare tanto i concetti quanto le metodologie curatoriali convenzionali»[6]. È anche da considerare che il cambiamento ora indicato si verifica sempre in risposta al mutare degli esiti offerti dalla ricerca artistica, che solo in tempi relativamente recenti ha iniziato a metabolizzare questa inclinazione operativa. È per questa motivazione che la classe rappresentata dall’arte internet-based costituisce un contesto speculativo, nonché un territorio di confronto fra visioni differenti, dotato di indubbia profondità d’indagine e di evidente attualità. Note [1] Papadaki 2019, p. 1 [2] Kraysa 2006, p. 10 [3] Weinberg 2014, p. 230 [4] Ivi, p. 231 [5] Ghidini 2015, p. 137 [6] Pan 2021, p. 48 Bibliografia Kraysa 2006 = J. Kraysa (a cura di), Curating Immateriality: The Work of the Curator in the Age of Network Systems, Autonomedia, Brooklyn 2006. Weinberg 2014 = L. Weinberg, Curating Immateriality: in serch for spaces of the curatorial, Goldsmith University press, Londra 2014. Ghidini 2015 = M. Ghidini, Curating web-based art exhibitions: mapping their migration and integration with offline formats of production, Sunderland University press, Sunderland 2015. Papadaki 2019 = E. Papadaki, Between the Art Canon and the Margins: Historicizing Technology-Reliant Art via Curatorial Practice, Indiana University press, Bloomington 2019 Pan 2021 = P. Pan, Curating multisensory experiences: the possibilities of the immersive exhibitions, OCAD University press, Toronto 2021. di Carmelo Occhipinti Gli scienziati, chimici, fisici, informatici, ingegneri, biologi stanno mettendo a disposizione degli umanisti strumenti di indagine tecnologica sempre più avanzati che, nei confronti del settore dei beni culturali, spalancano prospettive straordinariamente vaste e seducenti, talvolta davvero stupefacenti!
Perciò sempre più necessarie diventano le occasioni di incontro e di dialogo, come quella che all’università di Roma “Tor Vergata” si è svolta, il 29 maggio 2020, sul tema de «Le Scienze e il Museo: Archeologia, Ingegneria, Chimica in un approccio interdisciplinare per fruire i Beni Culturali nello spazio Museo che li conserva», a cura di Federica Bertini (Dipartimento di Studi Letterari, filosofici e di storia dell’arte) e Federica Valentini (Dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche), nell’ambito del master post-universitario da me coordinato in «Nuove tecnologie per la comunicazione, il cultural management e la didattica della storia dell’arte». Simili preziosissime occasioni di confronto serviranno a far capire a tutti noi – scienziati e umanisti – per quale via possa essere costruito il mondo di domani. Ma anche per interrogarci sul ruolo che dovrà avere l’umanista nella società del futuro, che sarà sempre di più dominata dall’innovazione tecnologica, dagli algoritmi, dall’intelligenza artificiale, dal marketing: a cosa serviranno gli archeologi e gli storici dell’arte quando a occuparsi di beni culturali, di reperti antichi, di monumenti artistici e di testi letterari saranno sempre di più gli scienziati, chimici, fisici, informatici, ingegneri e biologi, e quando a scrivere la storia dell’umanità saranno i genetisti piuttosto che i letterati? Ebbene, occasioni come quella del 29 maggio scorso aiuteranno gli umanisti a porsi alcuni nuovi interrogativi imparando ad ascoltare gli scienziati – certo! –, ma anche facendo loro sentire la propria voce. Rivolgendosi agli scienziati, gli umanisti impareranno a dar loro una direzione, affinché tanti progetti tecnologici innovativi, così stupefacenti e ammirevoli, vengano davvero messi al servizio della ricerca umanistica anziché ‘disumanizzarsi’, diciamo così, fino a perdere di vista quel valore irrinunciabile su cui dovrebbe trovare fondamento qualsivoglia progetto di società del futuro: il valore propriamente umanistico – appunto – della centralità dell’uomo rispetto al moderno panorama globalizzato e multimediale che, purtroppo, appare invece sempre più segnato dalla emarginazione dell’individuo, dove persino il principio di autodeterminazione individuale viene mortificato dalle logiche preminenti dell’innovazione dei sistemi produttivi e di mercato. Cerco di spiegarmi. Lo storico dell’arte avrà il dovere di avvertire gli scienziati che l’abitudine alla fruizione digitale del patrimonio artistico proveniente dal passato sta producendo una mostruosa perdita di senso storico specialmente tra i più giovani, compromettendone gravemente le facoltà sensoriali, inibendo le capacità di percezione ‘aptica’, irrigidendo le facoltà di giudizio, rendendo tutti noi, alla fine, sempre più indisponibili verso modi di vedere e linguaggi diversi, ovvero verso punti di vista storicamente condizionati e distanti da noi. Una così grande fiducia, da parte di tutti noi, nella comunicazione digitale rischia altresì di compromettere la nostra capacità di pensare e – paradossalmente! – di comunicare, cioè di confrontarci tra di noi, di servirci delle parole stesse di cui la nostra lingua è immensamente ricca per esprimerci, anche quando proviamo a riferirci alle stesse opere d’arte – quelle vere! – non appena le vediamo, per parlarne, per dire cosa esse ci comunicano… Una tale fiducia negli strumenti di indagine innovativa del patrimonio artistico rischia dunque di inibire la nostra capacità di rapportarci – direttamente e ‘immediatamente’ – ai capolavori dell’arte e della letteratura provenienti dal nostro passato, rispetto ai quali i giovani di oggi si sentono sempre più smarriti e disorientati, ove non vengano loro stessi supportati dai dispositivi tecnologici della memoria virtuale, oppure dagli strumenti della visione artificiale che permettano loro di ‘vedere’, appunto, al di là di quello che i nostri occhi – limitatamente umani – sono capaci di vedere. Finiamo così per convincerci che i nostri nudi e poveri occhi non vedano più niente, che non sappiano giudicare alcunché senza l’aiuto delle più sofisticate apparecchiature tecnologiche, dato che grazie ad esse riusciamo a vedere tutto e meglio. In tal senso la fiducia così sfrenata che negli ultimi anni abbiamo nutrito nei confronti del progresso e dell’innovazione tecnologica ha prodotto un terrificante degrado umano, culturale, sociale. Ebbene lo storico dell’arte avrà il dovere di ricordare a tutti, non solo agli scienziati, che per ‘vedere’ meglio le opere d’arte, per valorizzare davvero il patrimonio storico-artistico in seno alla moderna società multimediale e globalizzata, dovremmo tutti noi rieducarci alla visione: ma rieducarci alla visione non significa affidarci ancora di più ai supporti tecnologici, a questi sofisticatissimi strumenti che permettono di potenziare la nostra vista facendoci scrutare, in direzione di ciò che è immensamente piccolo, al di là della superficie visibile, dentro la infinita profondità della materia. Significa, piuttosto, imparare a chiudere i nostri occhi, per poter vedere meglio, dentro di noi, il mondo che ci circonda, il nostro stesso passato che vive nel presente, senza il quale noi non ci saremmo, né saremmo come siamo: e, dunque, per poter vedere le opere d’arte con tutto noi stessi. Rieducarci alla visione significa imparare a recuperare il valore del nostro sguardo interiore, limitato e storicamente condizionato, perché solo dopo avere ritrovato noi stessi impareremo a capire gli altri, a comprendere i linguaggi e i modi di vedere più diversi nonché, alla fine, a dare il giusto valore anche ai potentissimi strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione. Solo così non rischieremo di diventare noi stessi strumento della tecnologia, sacrificando la nostra stessa 'umanità' alle logiche produttive che sono profondamente disumane, selvaggiamente antiumanistiche! Rieducarci alla visione significa renderci conto che il nostro sguardo è e sarà sempre più potente di quello della macchina, proprio perché più ‘limitato’. E che la nostra fragilità ci rende di gran lunga più forti della macchina, perché nella nostra limitatezza appunto, nella nostra vulnerabilità, nella nostra inclinazione all’errore noi siamo infiniti. Rieducarci alla visione significa riscoprire proprio la nostra infinita, immensa profondità di esseri umani. Significa ritrovare la nostra dignità. Significa recuperare una nostra memoria storica, minacciata da questa sconfinata fiducia nel futuro e nella rivoluzione tecnologica che, azzerando il passato, ci conduce nientemeno che a ritenere l’uomo stesso, ormai, come obsoleto, superato, antico. Significa recuperare quello sguardo che sulle opere d’arte, lungo le epoche del passato, hanno saputo rivolgere gli uomini che ci hanno preceduti, capaci talvolta di vedere molto meglio di noi, dato che che i sofisticatissimi strumenti tecnologici di cui disponiamo impoveriscono paradossalmente la nostra capacità di ‘vedere’, mortificando il nostro stesso senso di libertà. Imparare a guardare le opere d’arte con gli occhi, per esempio, di Leonardo da Vinci, di Giorgio Vasari, di Johann Joachim Winckelmann significa capire quanto ci siamo oggi impoveriti. Quanto la nostra umanità si sia ridotta, grazie a questa meravigliosa rivoluzione digitale! Ma attenzione: a proposito dei beni culturali e del patrimonio artistico, non ci sarà progetto tecnologico che possa davvero definirsi come ‘innovativo’, ove non si trovino attivamente coinvolti degli umanisti. Bisogna, insomma, che gli umanisti tornino a reggere il timone per evitare il baratro inesorabile nel quale la rivoluzione tecnologica sta facendoci precipitare. |
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