di Davide Pellicciari Shirley. Visions of reality è un lungometraggio sperimentale scritto e diretto da Gustav Deutsch e uscito nelle sale cinematografiche italiane nel 2013. Il regista austriaco, già artista e architetto, si cimenta per la prima volta in un progetto sperimentale sull’opera dell’artista statunitense Edward Hopper, in particolare su quei dipinti che ritraggono, tra gli anni Trenta e i Sessanta, la giovane Shirley, che in realtà è la moglie del pittore, Josephine. Shirley è ritratta da Hopper in tutta la sua amara solitudine, sempre in bilico tra realismo e irrealtà, nell’incertezza di quello che potrebbe accadere da un momento all’altro, nella ossessiva immobilità del tempo che lo spettatore percepisce: guardando i quadri di Hopper, lo spettatore si identifica con Shirley, si aspetta anche lui che qualcosa possa accadere, che lo aiuti a valicare quelle atmosfere sospese, silenziose, poco vivaci, in direzione di una “luce”. Così Shirley. Visions of reality è il racconto di una disillusione, il racconto di una “mancata identificazione con lo stereotipo americano” (http://www.lucenews.it/shirley-visions-of-reality-verita-della-luce-visioni-architettura-interni/). Ora il regista austriaco Deutsch ha trasformato in opere cinematografiche ben tredici dipinti del “de Chirico americano”. I tredici “tableaux vivants” in cui si articola il lungometraggio ripercorrono la storia americana lungo trent’anni. È grazie alla fotografia di Jerzy Palacz che Deutch ricrea l’universo emotivo di Hopper: questa è l’alchimia di tutta la carriera stilistica dell’artista Hopper, riflessa nella giovane promessa Shirley. Ma chi è questa giovane eroina? È attrice impegnata nel teatro e nella recitazione, appassionata lettrice della Dickinson e di Platone, che vive e riflette tutti i lati positivi e negativi del sogno americano che si perseguiva in quegli anni. In Shirley. Visions of reality la vita della donna a cavallo tra il 1931 e la fine degli anni ’60 è interpretata dalla ballerina e coreografa Stephanie Cumming. Nello stesso arco di tempo vengono riproposte le principali opere di Hopper, che diventano le scenografie dei brevi e intensi “stream of consciousness”, i monologhi interiori dell’artista, dove vengono analizzati attualità politica, lavoro, tematiche sociali, ansie e sogni dell’America di quegli anni. Non a caso il “film è puntellato di rimandi alla storia americana. I titoli che introducono le tredici scene e alcuni frammenti di trasmissione di notizie rendono la storia di Shirley rappresentativa della storia politica, sociale e culturale dell’America di quei decenni: Pearl Harbour e la seconda guerra mondiale, la bomba atomica e la "conquista dello spazio", l'assassinio di John F. Kennedy e l'inizio della guerra del Vietnam, Duke Ellington e il suono big band, Billie Holiday, Elvis Presley, Bob Dylan, il crollo del mercato azionario, la depressione, il fordismo e le autostrade interstatali, il Ku Klux Klan e le rivolte razziali, la marcia su Washington e Martin Luther King. Shirley vive e riflette tutto ciò come attrice impegnata e come donna emancipata. Le piace il jazz, ascoltare la radio e ama i film”( http://www.bcomeblog.com/articoli/articolo/196/Shirley---Visions-of-reality). Non è un caso il videoartista austriaco abbia scelto di lavorare sull’opera di un artista che il grande Hitchcock aveva già indicato come fonte di ispirazione per la propria scenografia, riguardo per esempio all’utilizzo della luce. Quadri come “Hotel room”, “New York movie”, o “Morning sun”, o ancora “A woman in the sun”, prendono letteralmente vita, lasciando vagheggiare qualcosa che realmente può succedere in quelle atmosfere: ed in effetti in quei “tableaux” qualcosa accade sempre. Tutto il film è incorniciato dalla tela del 1965 “Car chair”, dove la protagonista è intenta a leggere un libro di poesie di Emily Dickinson: il dipinto funge da filo conduttore per la storia, quasi un simbolo di attesa e immobilità, un viaggio senza fine. Gustav Deutsch già nel 2010 aveva contribuito alla prima mostra in Italia su Hopper, tenutasi nello splendido contesto del Palazzo Reale di Milano. In particolare egli curò l’installazione che chiudeva la mostra, “Friday, 29 th August 1952, 6 A.M, New York”, niente meno che la ricostruzione della scenografia del noto dipinto di Hopper in “Morning sun”: in tal senso quindi “tutti possono diventare attori di quel dipinto, abitarlo e muoversi al suo interno come attori per caso, filmati da una telecamera”, come si legge in un recente libro, “Contro le mostre”, pubblicato per Einaudi da Tomaso Montanari e Vincenzo Trione; in particolare, a proposito dell’iniziativa di Palazzo Reale del 2010, i due autori appena citati parlavano di “amusement mania”, ovvero di quel tipo di intrattenimento leggero che le mostre odierne sembrano voler cercare a scapito di contenuti culturali più seri: il rischio è quello di “confondere cultura e svago… intellettualizzazione coatta dello svago”. In questo contesto come si può collocare il film diretto da Deutsch? Forse solamente un’opera cinematografica diversa, che riesce ad unire video-performance, teatro e cinema: l’autore ha avuto la capacità di costruire una storia ai 13 quadri di Hopper, e di “non essersi cristallizzato in un puro omaggio visuale, celibe e sterile, al gran pittore della vita americana del Novecento.” (nuovocinemalocatelli.com/2016/07/05/visti-shirley-visions-of-reality/).
0 Commenti
Lascia una Risposta. |
Categorie
Tutti
Archivi
Marzo 2024
|