di Carolina Righi La mostra Couture Sculpture si è tenuta dall’11 luglio al 25 ottobre 2015 all’interno della Galleria Borghese, per volere della direttrice Anna Coliva e grazie alla collaborazione dello storico del costume, nonché curatore dell’evento, Mark Wilson. L'eccezionalità di tale evento è consistita nell’accostamento di circa 65 abiti disegnati dal famoso stilista Azzedine Alaia, ai capolavori dell’arte di Bernini, Caravaggio e Canova. Un vero e proprio incontro di mondi ed epoche diverse, nel tentativo di farli dialogare tra loro. Azzedine Alaia nasce a Tunisi nel 1940. La sua formazione prende avvio nell’Accademia di Belle Arti, dove inizia a nutrire un forte interesse nei confronti della scultura. La sua strada nel mondo della moda ha inizio nel momento in cui si trasferisce a Parigi, lavorando come assistente per importanti personalità quali Christian Dior, Guy Laroche, per aprire quindi un suo primo atelier alla fine degli anni Settanta. Nel corso della sua carriera vestì personaggi influenti nel mondo dello spettacolo, quali Greta Garbo, Naomi Campbell e Tina Turner, ottenendo quindi una fortuna ancor maggiore. La sua celebrazione all’interno di un museo tanto importante quanto la Galleria Borghese è e sarà un forte motivo di vanto per lo stilista, come si evince dalle sue interviste. La mostra della Galleria Borghese ha voluto rendere omaggio allo stilista, esaltandone proprio il suo forte legame con la scultura in considerazione della sua abilità di plasmare i suoi abiti lavorando sul corpo femminile. La stessa direttrice del museo Anna Coliva ha definito questa una mostra di scultura, non di moda, dando per scontato che gli abiti in questione andassero apprezzati come vere e proprie opere d’arte. Come riportato dalla giornalista Laura Laurenzi in un articolo su Repubblica, il curatore Max Wilson spiega l’obiettivo di questa mostra, del tutto sperimentale. Essa punta a creare un continuum tra ieri e oggi, una visione unitaria della arti, quali la scultura, la pittura e la moda. Wilson pone degli interrogativi volti ad avvalorare le sue tesi e ad evidenziare ancor di più il filo che unisce la scultura e la moda: “Chi l’ha detto che la scultura debba essere plasmata necessariamente nel marmo e non nella stoffa, nella maglia e nel cuoio?”. Aggiunge poi un paragone tra lo scalpello dell’artista e le forbici dello stilista, ugualmente capaci di creare opere di straordinaria bellezza, al pari dei capolavori dei maestri dell’arte. “Il lavoro di Alaïa enfatizza il corpo umano. Non è solo uno stilista, ma uno scultore a tutto tondo, che taglia, cuce e colora ogni singolo tessuto”. Da qui nasce la definizione di “soft sculpture’’ in riferimento agli abiti di Alaia, ovvero “struttura soffice”, creata con l’utilizzo di materiale quali seta, velluto, ecopelle e maglia. Le reazioni a questa mostra, unica nel suo genere, sono state molteplici. Positivo il giudizio del mondo della moda, più frastagliato e talvolta negativo il giudizio all’interno del mondo della critica d’arte. Riviste come Vanityfair e IO donna esprimono opinioni a favore di questa scelta sperimentale. Gli abiti del couturier sono elogiati per la loro forma e per la loro capacità di enfatizzare il corpo della donna, quasi il tessuto fosse una seconda pelle. Gli abiti sono sistemati seguendo una logica ben precisa, in base ai materiali e soprattutto ai colori, poiché sono abbinati alle sculture, ai quadri e alle decorazioni della galleria. Entrando dunque nelle sale dedicate a Caravaggio, guardando opere come “La Madonna dei Palafrenieri” si troveranno abiti di colori scuri, quali il bordeaux, il blu scuro. Nelle sale dedicate alle sculture egizie invece, si troveranno abiti con fasce, che rimandano alle decorazioni dei nemes dei faraoni. Il risultato è dunque di intrecciare un dialogo tra le opere d'arte in senso stretto e gli abiti di Azzedine Alaia, intesi come opere d’arte provenienti da una forbice, e i cui tessuti rimandano alle superfici scolpite da Bernini modellando il marmo. Sul versante opposto si colloca invece Tomaso Montanari, storico dell’arte ed editorialista, che il 2 agosto del 2015 pubblica un violento articolo su Repubblica. Il suo testo si apre con un elogio della Galleria Borghese, definita come uno dei più miracolosi organismi artistici dell’occidente, e per questo ogni mostra organizzata al suo interno deve essere “necessaria”. Riflette quindi sulla necessità di accostare abiti, sculture e dipinti, chiedendosi il senso di porre vicino, ad esempio, a due abiti minigonna, uno bianco e uno nero, il David di Bernini. Montanari afferma che è da molto tempo che la moda ha fatto irruzione nei musei, ma solitamente l’incontro tra i due mondi è sempre avvenuto per eventi commerciali, quali sfilate organizzate in luoghi d’arte ad esempio negli Uffizi, e non per cercare di creare a tutti i costi un legame tra arte e moda, che secondo lui è impossibile da realizzare. La colpa di una simile iniziativa, di questo assurdo tentativo di accostare elementi del tutto differenti, è dovuta alla filosofia del Made in Italy, secondo cui tutto si può mettere sullo stesso piano, “la mozzarella, Caravaggio, la Ferrari, le borse di Prada”. In realtà questo modo di ragionare non aiuta a comprendere a fondo né gli oggetti del nostro passato né quelli del nostro presente. Montanari disapprova anche che sia proprio un museo a legittimare questo accostamento, poiché il museo è il luogo della contemplazione delle opere d'arte del passato. La pretesa di porre gli abiti di Alaia sullo stesso piano dei capolavori di Bernini, Caravaggio, Canova, è sbagliata. Aggiunge però una ulteriore riflessione negativa: una mostra del genere avrebbe avuto un senso se fosse stata organizzata all’interno di un museo di moda o di arte contemporanea, come era accaduto a Parigi o al Guggenheim di New York, e non in un luogo come la Galleria Borghese. A tale scelta si collega l’incapacità di gestire, usare e valorizzare il nostro patrimonio culturale, e la mancanza ancora oggi di luoghi adatti al contemporaneo, come testimonia il fallimento del Maxxi. Montanari conclude che per capire veramente la bellezza della moda e dei capolavori dell’arte bisogna quindi lasciare le due discipline ben divise, e non metterle sullo stesso piano. Sulla rivista telematica Artribune viene riportata una lettera che Anna Detheridge, critica d’arte e curatrice della mostra di moda tenutasi a Milano a Palazzo Morando intitolata “Fashion As Social Energy”, indirizza a Tomaso Montanari, in risposta a questo suo articolo. Anch’essa esprime un giudizio negativo riguardo la mostra organizzata alla Galleria Borghese ma giustifica questa scelta, a sua detta poco sensata, con le difficoltà e le ristrettezze economiche cui vanno incontro i musei, portati dunque ad accettare tutte le proposte che comportino di conseguenza un’entrata di denaro. La Detheridge si augura, contro Montanari, che si riescano in futuro a organizzare progetti in cui le varie discipline possano comunicare tra loro, unendo dunque arte, artigianato e moda, creando confronti utili per apprezzare il presente in rapporto al passato e viceversa. Sitografia e crediti:
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